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Per
risalire alle origini del tatuaggio polinesiano bisogna ripercorrere la
storia di questo popolo per incontrare la civiltà màohi. In questi anni,
grazie alla rivivificazione delle tradizioni polinesiane, a Tahiti, si
è prodotta una vera e propria rinascita del tatuaggio, che sembrava oramai
dimenticato.
Combattuta dalle religioni occidentali, per secoli, la tecnica del tatuaggio
è completamente caduta in disuso, ma è stata recentemente reintrodotta
in occasione delle feste del tiurai, a partire dal 1982, grazie
al concorso dei tatuatori di Samoa.
La tradizione vuole che il tatuaggio fosse segno distintivo esclusivo
delle classi sociali più elevate, strategia di attrazione sessuale e segno
di riconoscimento per i meriti ottenuti in guerra o in occasioni particolari.
Il tatuaggio aveva, anche in Polinesia, la proprietà
di affermare l’identità culturale ed il valore del singolo.
Avendo un’origine religiosa, presso i polinesiani il tatuaggio veniva
effettuato all’interno di un vero e proprio contesto cerimoniale, in cui
la musica (di tamburi, flauti e conchiglie) assumeva un ruolo di particolare
rilievo. Ogni disegno aveva un suo nome ed il diritto di tatuare spettava
al solo sacerdote tatuatore (tahu’a tatau), il quale, per questo,
godeva di una considerazione particolare. Il pigmento nero, era ottenuto
mediante la “cottura” e polverizzazione di noci di bancoule tiairi,
quindi diluito con acqua o con monoi. Il tatuatore procedeva, dunque,
solo dopo aver invocato gli dei preposti al tatuaggio, perché la cicatrizzazione
avvenisse rapidamente
e senza rischi d’infezione.
Anche nel contesto polinesiano è possibile ricostruire, attraverso la
lettura del testo di Roberto Borsi[71], una sorta di tipologia dei tatuaggi:
1) tatuaggio degli appartenenti alla classe sacerdotale
(ereditario);
2) tatuaggio dei capi (uomini o donne);
3) tatuaggio della classe dei guerrieri, danzatori,
rematori, ecc.;
4) tatuaggio delle persone comuni.
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