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L’Occidente,
dopo aver dimenticato per secoli la pratica del tatuaggio, ha avuto modo
di riscoprirla, a partire dalla colonizzazione del Nuovo Mondo (XV secolo),
ossia in seguito all’approccio con nuove culture. Per ben tre secoli,
però, l’Occidente ha dimostrato verso tali pratiche quasi soltanto un’insana
curiosità, utilizzando il tatuaggio per alimentare lo stereotipo negativo
del “selvaggio”. Durante tale periodo, in Europa il tatuaggio veniva esibito
quasi esclusivamente da marinai e viaggiatori di ritorno dall’Oriente.
La rivalutazione effettiva di questa pratica di iscrizione corporea fra
gli europei si ebbe nel periodo compreso fra la fine del Settecento e
l’inizio dell’Ottocento, con il rientro in Europa di marinai e viaggiatori
dall’Indocina, dall’Indonesia, dal Giappone, dalla Micronesia o dalla
Polinesia, portando incisi sulla pelle tatuaggi esotici quasi fossero
souvenir.
Molti sono gli elementi che fanno ritenere che piercing
e tatuaggi risalgano ad epoche preistoriche. Di certo sappiamo che tali
pratiche avevano grande diffusione nell’antico Egitto, nelle culture precolombiane
dei Maya e degli Aztechi, presso alcune popolazioni dell’Alaska, fra gli
indiani nordamericani, in Africa, nel sud-est asiatico, fra i Maori, i
Polinesiani, gli Arabi e gli Indiani. Il declino e persino l’abbandono
di queste pratiche fu provocato dall’opera di cristianizzazione/deculturalizzazione
dei missionari cristiani, secondo i quali tali pratiche testimoniavano
l’inciviltà di coloro che ad esse si sottoponevano.
Il tatuaggio, come altre forme di “scrittura corporea”, esiste da sempre
e vi è almeno una teoria che ritiene probabile che sia nato come sistema
comunicativo precedendo quello fonetico. Alle origini, l’uomo incide sulla
propria pelle segni che ritiene abbiano un potere magico o scaramantico,
cosicché, in cambio di questa sorta di protezione naturale, che lo fa
sentire forte e positivo, accetta di buon grado il dolore fisico che ne
deriva, e anzi lo vive come prova da superare che fortifica. Altro aspetto
da valutare, è il carattere identificativo connesso a qualsiasi tipo di
“scrittura corporea”, attraverso cui si comunica “la propria condizione
sociale o spirituale all’interno di un gruppo”.
Fra le popolazioni occidentali, i primi che praticarono il tatuaggio,
di cui abbiamo notizia, furono i Celti (che oltretutto erano soliti praticare
il body painting, per cui dipingevano il corpo di azzurro) e i
Picti (il cui nome latino traduce “brith”, ossia “dipinto”), popolazione
che abitava nell’odierna Scozia, le cui origini sono anteriori a quelle
dei Celti. Il tatuaggio, fra di loro, era riservato alle classi dei nobili
e dei guerrieri. Fra l’altro, i guerrieri picti adottarono l’uso di tatuaggi
per incutere timore nel nemico. Il tatuaggio, inoltre, è documentato anche
presso i Galli, i Goti, i Teutoni, i Britanni.
Più rare, sono invece le testimonianze storiche relative alla pratica
del tatuaggio in Grecia, dove pare avessero soprattutto valenza religiosa.
Nella Roma antica, il tatuaggio fu utilizzato, al pari della marchiatura
a fuoco, per distinguere schiavi e criminali.
Nel 1947, in Siberia è stata rinvenuta la mummia di un guerriero sciita
(risalente al V secolo a. C.), che è il più antico esempio di tatuaggio
ancora visibile. Sul corpo, conservato grazie alle temperature glaciali,
è ancora possibile vedere le sagome tatuate di animali. Ma ancor prima
dell’Età del Bronzo e del Ferro, dovette essere comune, in Portogallo,
in Romania, in Scandinavia, come nei Balcani, la pratica del tatuaggio,
come viene testimoniato dal ritrovamento, avvenuto in questi territori,
di statuette neolitiche decorate con punti e linee. Del resto, l’archeologia
ha portato alla luce utensili che pare siano stati utilizzati per tatuare.
Nell’antico Egitto, oltre a numerose statuette “tatuate” (datate fra il
4000 e il 2000 a.C.) e al corpo mummificato e tatuato della sacerdotessa
Amunet (vissuta intorno al 2180-2060 a.C.), è stata documentata una larga
diffusione del tatuaggio, una vera e propria tradizione, talmente consolidata
da dare adito all’ipotesi che, proprio a partire dall’Egitto, dovesse
essere stata esportata in Europa. Le decorazioni più frequenti, oltre
a puntini che circondavano l’ombelico e i capezzoli, erano rappresentate
da amuleti e figure di animali. Nel corso del medio Regno (1990-1730 a.C.),
tra l’altro, pare che il tatuaggio fosse più diffuso fra le donne.
In Cina, il tatuaggio giunse, intorno al 2000 a.C., dall’Asia meridionale.
Da qui si diffuse nelle isole settentrionali dell’arcipelago giapponese,
presso gli ainu, che ne migliorarono le tecniche fino a raggiungere elevatissimi
livelli artistici. In Giappone, il tatuaggio fu introdotto più tardi,
nel XII secolo a.C., a partire dalle regioni meridionali per diffondersi
poi nelle Filippine, nel Borneo e nelle isole del Pacifico.
Presso gli Ainu, erano solo le donne a tatuarsi, praticando segni scuri
sul viso (in particolare intorno alla bocca), sulle mani e sulle braccia,
segni identificativi di una specifica condizione sociale. In genere, alle
anziane del gruppo era affidato il compito di tatuare le giovani. Esse
procedevano all’operazione attraverso una tecnica del tutto singolare,
ossia avvalendosi di un filo intriso di cenere di carbone, che veniva
inserito sotto la pelle mediante un ago, e quindi fatto scorrere in modo
che producesse delle linee nere. Gli Ainu diffusero la pratica del tatuaggio
in Alaska, in Siberia e in America settentrionale.
In Messico e Perù, il tatuaggio veniva diffusamente praticato dalle civiltà
precolombiane, in particolare da Maya, Incas e Aztechi.
In Europa, per effetto del processo di cristianizzazione, il tatuaggio,
che vi era giunto anticamente dall’Egitto, fu ufficialmente messo al bando
dal veto papale di Adriano I, perché ritenuto essere pratica barbarica,
persino segno deturpante dell’“immagine di Dio riflessa nella figura umana”,
a detta del papa stesso. Nell’Europa del Nord non cristianizzata, invece,
il tatuaggio rappresentava, per i nobili che ostentavano sul proprio corpo
l’araldo di famiglia, un segno di distinzione di status da esibire
con orgoglio. Il tatuaggio dovrà attendere molti secoli ancora prima di
ottenere un riconoscimento ufficiale. Tale riconoscimento ha inizio nel
1770, con l’introduzione nella terminologia europea del termine “tattoo”
(occidentalizzazione dell’originario “tattaw”), operata da James
Cook in una descrizione dei Maori contenuta in un suo diario di viaggio.
L’Europa aveva già avuto occasione di riscoprire il fascino del tatuaggio
a partire dall’inizio delle prime esplorazioni, quando il ritorno dei
navigatori si accompagnava, non solo ai loro racconti, relativi ad usi
e tradizioni dal sapore esotico (fra cui anche quella del tatuaggio),
racconti che peraltro alimentarono il pregiudizio negativo nei confronti
delle culture indigene, ma anche, spesso, allo sfoggio dei loro stessi
corpi tatuati, quando non all’esibizione disumana del “primitivo tatuato”.
Rientra in questa categoria, per esempio, il caso, uno fra i tanti, del
principe Giolo, un indigeno interamente tatuato che suscitò l’interesse
dei nobili inglesi e divenne un’attrazione all’interno di spettacoli itineranti.
Il tatuaggio si diffuse a partire dalla metà dell’Ottocento specie nei
porti, inglesi ed americani, ed in particolare fra i marinai, nonostante
l’opposizione manifesta della Marina americana. L’invenzione della macchinetta
elettrica da parte del tatuatore Samuel O’Reilly, ne favorì certamente
una maggiore e più rapida diffusione in tutta Europa. Il fascino del tatuaggio,
in questo periodo, contaminò parte dell’aristocrazia europea, nonché alcuni
re.
Durante il periodo tra la fine dell’'800 e gli inizi del '900, si assistette
ad un fenomeno considerato persino scandaloso, per l’epoca, ossia a quello
delle “tattooed ladies”. Se, sino ad allora, infatti, sembrava
che le donne non avessero subito il fascino del tatuaggio, improvvisamente,
quest’idea venne smentita da donne che amarono esibire il loro corpo quasi
interamente tatuato, alcune delle quali divennero attrazioni da circo.
Al di là di questi casi limite, la diffusione del tatuaggio continuò soprattutto
fra i marinai, i soldati, le prostitute, i galeotti e le donne dell’ambiente
del circo, cosa che contribuì a rafforzare l’opinione negativa dei benpensanti
nei confronti del tatuaggio, da loro considerato segno distintivo di devianza
sociale.
Nelle isole della Polinesia, Melanesia e Micronesia il tatuaggio era considerato
indispensabile, ad esso erano attribuiti significati religiosi e sociali,
per cui poteva, per esempio, denunciare, nelle donne koita della Nuova
Guinea, il fidanzamento o il matrimonio, nelle isole Marchesi e nell’isola
di Yap, individuare il capo tribù o i guerrieri, nel cui caso venivano
riprodotti motivi a bande e inserti geometrici su tutto il corpo. Le isole
Samoa erano luoghi di ritrovo per i tatuatori della Polinesia, che insegnavano
ai più giovani le loro tecniche perché si perpetuassero.
Lo sviluppo del tatuaggio subì certamente un arresto, sul fronte occidentale,
mentre, all’opposto, si intensificò in Oriente.
Per le stesse ragioni che vietavano il tatuaggio ai cristiani, esso non
ebbe occasione di diffondersi nei paesi di cultura araba, laddove il Corano
proibisce il ferimento del proprio corpo. Seppure raramente, fu praticato
presso alcune tribù, ma anche in questi casi episodici, i tatuati, nel
timore della dannazione eterna, lo cancellavano con il fuoco prima di
morire.
In Africa, il tatuaggio si diffuse, al di là delle poche eccezioni, solo
in Egitto e Marocco (tra i Berberi), ossia fra le popolazioni di pelle
più chiara, sulle quali il tatuaggio sarebbe potuto risultare visibile.
Nelle regioni centrali e meridionali, abitate da popolazioni di pelle
più scura, invece, alla pratica del tatuaggio fu preferita, dunque, quella
della scarificazione.
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