3.1 IL TATUAGGIO
     
3.1.1 IL TATUAGGIO NELLE SOCIETA’ TRADIZIONALI
3.1.2 Il TATUAGGIO POLINESIANO
3.1.3 Il TATUAGGIO GIAPPONESE
3.1.4 IL TATUAGGIO OCCIDENTALE
 

L’Occidente, dopo aver dimenticato per secoli la pratica del tatuaggio, ha avuto modo di riscoprirla, a partire dalla colonizzazione del Nuovo Mondo (XV secolo), ossia in seguito all’approccio con nuove culture. Per ben tre secoli, però, l’Occidente ha dimostrato verso tali pratiche quasi soltanto un’insana curiosità, utilizzando il tatuaggio per alimentare lo stereotipo negativo del “selvaggio”. Durante tale periodo, in Europa il tatuaggio veniva esibito quasi esclusivamente da marinai e viaggiatori di ritorno dall’Oriente.
La rivalutazione effettiva di questa pratica di iscrizione corporea fra gli europei si ebbe nel periodo compreso fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, con il rientro in Europa di marinai e viaggiatori dall’Indocina, dall’Indonesia, dal Giappone, dalla Micronesia o dalla Polinesia, portando incisi sulla pelle tatuaggi esotici quasi fossero souvenir.
Molti sono gli elementi che fanno ritenere che piercing e tatuaggi risalgano ad epoche preistoriche. Di certo sappiamo che tali pratiche avevano grande diffusione nell’antico Egitto, nelle culture precolombiane dei Maya e degli Aztechi, presso alcune popolazioni dell’Alaska, fra gli indiani nordamericani, in Africa, nel sud-est asiatico, fra i Maori, i Polinesiani, gli Arabi e gli Indiani. Il declino e persino l’abbandono di queste pratiche fu provocato dall’opera di cristianizzazione/deculturalizzazione dei missionari cristiani, secondo i quali tali pratiche testimoniavano l’inciviltà di coloro che ad esse si sottoponevano.

Il tatuaggio, come altre forme di “scrittura corporea”, esiste da sempre e vi è almeno una teoria che ritiene probabile che sia nato come sistema comunicativo precedendo quello fonetico. Alle origini, l’uomo incide sulla propria pelle segni che ritiene abbiano un potere magico o scaramantico, cosicché, in cambio di questa sorta di protezione naturale, che lo fa sentire forte e positivo, accetta di buon grado il dolore fisico che ne deriva, e anzi lo vive come prova da superare che fortifica. Altro aspetto da valutare, è il carattere identificativo connesso a qualsiasi tipo di “scrittura corporea”, attraverso cui si comunica “la propria condizione sociale o spirituale all’interno di un gruppo”.
Fra le popolazioni occidentali, i primi che praticarono il tatuaggio, di cui abbiamo notizia, furono i Celti (che oltretutto erano soliti praticare il body painting, per cui dipingevano il corpo di azzurro) e i Picti (il cui nome latino traduce “brith”, ossia “dipinto”), popolazione che abitava nell’odierna Scozia, le cui origini sono anteriori a quelle dei Celti. Il tatuaggio, fra di loro, era riservato alle classi dei nobili e dei guerrieri. Fra l’altro, i guerrieri picti adottarono l’uso di tatuaggi per incutere timore nel nemico. Il tatuaggio, inoltre, è documentato anche presso i Galli, i Goti, i Teutoni, i Britanni.
Più rare, sono invece le testimonianze storiche relative alla pratica del tatuaggio in Grecia, dove pare avessero soprattutto valenza religiosa. Nella Roma antica, il tatuaggio fu utilizzato, al pari della marchiatura a fuoco, per distinguere schiavi e criminali.
Nel 1947, in Siberia è stata rinvenuta la mummia di un guerriero sciita (risalente al V secolo a. C.), che è il più antico esempio di tatuaggio ancora visibile. Sul corpo, conservato grazie alle temperature glaciali, è ancora possibile vedere le sagome tatuate di animali. Ma ancor prima dell’Età del Bronzo e del Ferro, dovette essere comune, in Portogallo, in Romania, in Scandinavia, come nei Balcani, la pratica del tatuaggio, come viene testimoniato dal ritrovamento, avvenuto in questi territori, di statuette neolitiche decorate con punti e linee. Del resto, l’archeologia ha portato alla luce utensili che pare siano stati utilizzati per tatuare.
Nell’antico Egitto, oltre a numerose statuette “tatuate” (datate fra il 4000 e il 2000 a.C.) e al corpo mummificato e tatuato della sacerdotessa Amunet (vissuta intorno al 2180-2060 a.C.), è stata documentata una larga diffusione del tatuaggio, una vera e propria tradizione, talmente consolidata da dare adito all’ipotesi che, proprio a partire dall’Egitto, dovesse essere stata esportata in Europa. Le decorazioni più frequenti, oltre a puntini che circondavano l’ombelico e i capezzoli, erano rappresentate da amuleti e figure di animali. Nel corso del medio Regno (1990-1730 a.C.), tra l’altro, pare che il tatuaggio fosse più diffuso fra le donne.
In Cina, il tatuaggio giunse, intorno al 2000 a.C., dall’Asia meridionale. Da qui si diffuse nelle isole settentrionali dell’arcipelago giapponese, presso gli ainu, che ne migliorarono le tecniche fino a raggiungere elevatissimi livelli artistici. In Giappone, il tatuaggio fu introdotto più tardi, nel XII secolo a.C., a partire dalle regioni meridionali per diffondersi poi nelle Filippine, nel Borneo e nelle isole del Pacifico.
Presso gli Ainu, erano solo le donne a tatuarsi, praticando segni scuri sul viso (in particolare intorno alla bocca), sulle mani e sulle braccia, segni identificativi di una specifica condizione sociale. In genere, alle anziane del gruppo era affidato il compito di tatuare le giovani. Esse procedevano all’operazione attraverso una tecnica del tutto singolare, ossia avvalendosi di un filo intriso di cenere di carbone, che veniva inserito sotto la pelle mediante un ago, e quindi fatto scorrere in modo che producesse delle linee nere. Gli Ainu diffusero la pratica del tatuaggio in Alaska, in Siberia e in America settentrionale.
In Messico e Perù, il tatuaggio veniva diffusamente praticato dalle civiltà precolombiane, in particolare da Maya, Incas e Aztechi.
In Europa, per effetto del processo di cristianizzazione, il tatuaggio, che vi era giunto anticamente dall’Egitto, fu ufficialmente messo al bando dal veto papale di Adriano I, perché ritenuto essere pratica barbarica, persino segno deturpante dell’“immagine di Dio riflessa nella figura umana”, a detta del papa stesso. Nell’Europa del Nord non cristianizzata, invece, il tatuaggio rappresentava, per i nobili che ostentavano sul proprio corpo l’araldo di famiglia, un segno di distinzione di status da esibire con orgoglio. Il tatuaggio dovrà attendere molti secoli ancora prima di ottenere un riconoscimento ufficiale. Tale riconoscimento ha inizio nel 1770, con l’introduzione nella terminologia europea del termine “tattoo” (occidentalizzazione dell’originario “tattaw”), operata da James Cook in una descrizione dei Maori contenuta in un suo diario di viaggio.
L’Europa aveva già avuto occasione di riscoprire il fascino del tatuaggio a partire dall’inizio delle prime esplorazioni, quando il ritorno dei navigatori si accompagnava, non solo ai loro racconti, relativi ad usi e tradizioni dal sapore esotico (fra cui anche quella del tatuaggio), racconti che peraltro alimentarono il pregiudizio negativo nei confronti delle culture indigene, ma anche, spesso, allo sfoggio dei loro stessi corpi tatuati, quando non all’esibizione disumana del “primitivo tatuato”. Rientra in questa categoria, per esempio, il caso, uno fra i tanti, del principe Giolo, un indigeno interamente tatuato che suscitò l’interesse dei nobili inglesi e divenne un’attrazione all’interno di spettacoli itineranti.
Il tatuaggio si diffuse a partire dalla metà dell’Ottocento specie nei porti, inglesi ed americani, ed in particolare fra i marinai, nonostante l’opposizione manifesta della Marina americana. L’invenzione della macchinetta elettrica da parte del tatuatore Samuel O’Reilly, ne favorì certamente una maggiore e più rapida diffusione in tutta Europa. Il fascino del tatuaggio, in questo periodo, contaminò parte dell’aristocrazia europea, nonché alcuni re.
Durante il periodo tra la fine dell’'800 e gli inizi del '900, si assistette ad un fenomeno considerato persino scandaloso, per l’epoca, ossia a quello delle “tattooed ladies”. Se, sino ad allora, infatti, sembrava che le donne non avessero subito il fascino del tatuaggio, improvvisamente, quest’idea venne smentita da donne che amarono esibire il loro corpo quasi interamente tatuato, alcune delle quali divennero attrazioni da circo.
Al di là di questi casi limite, la diffusione del tatuaggio continuò soprattutto fra i marinai, i soldati, le prostitute, i galeotti e le donne dell’ambiente del circo, cosa che contribuì a rafforzare l’opinione negativa dei benpensanti nei confronti del tatuaggio, da loro considerato segno distintivo di devianza sociale.
Nelle isole della Polinesia, Melanesia e Micronesia il tatuaggio era considerato indispensabile, ad esso erano attribuiti significati religiosi e sociali, per cui poteva, per esempio, denunciare, nelle donne koita della Nuova Guinea, il fidanzamento o il matrimonio, nelle isole Marchesi e nell’isola di Yap, individuare il capo tribù o i guerrieri, nel cui caso venivano riprodotti motivi a bande e inserti geometrici su tutto il corpo. Le isole Samoa erano luoghi di ritrovo per i tatuatori della Polinesia, che insegnavano ai più giovani le loro tecniche perché si perpetuassero.
Lo sviluppo del tatuaggio subì certamente un arresto, sul fronte occidentale, mentre, all’opposto, si intensificò in Oriente.
Per le stesse ragioni che vietavano il tatuaggio ai cristiani, esso non ebbe occasione di diffondersi nei paesi di cultura araba, laddove il Corano proibisce il ferimento del proprio corpo. Seppure raramente, fu praticato presso alcune tribù, ma anche in questi casi episodici, i tatuati, nel timore della dannazione eterna, lo cancellavano con il fuoco prima di morire.
In Africa, il tatuaggio si diffuse, al di là delle poche eccezioni, solo in Egitto e Marocco (tra i Berberi), ossia fra le popolazioni di pelle più chiara, sulle quali il tatuaggio sarebbe potuto risultare visibile. Nelle regioni centrali e meridionali, abitate da popolazioni di pelle più scura, invece, alla pratica del tatuaggio fu preferita, dunque, quella della scarificazione.

3.1.1 IL TATUAGGIO NELLE SOCIETA’ TRADIZIONALI
3.1.2 Il TATUAGGIO POLINESIANO
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