CONCLUSIONI

“Il mio corpo è quella parte del mondo che può essere cambiata dai miei pensieri.”
                                         (Lichtenberg, The Lichtenberger Reader)



Modificare il proprio corpo è bisogno universale, per l’uomo, quanto quello di comunicare. Il corpo, del resto, esprime il nostro modo di essere, parla di noi agli altri, ci rappresenta. La scelta della propria immagine gioca, d’altra parte, un ruolo importante anche nella percezione del sé. Il nostro look esprime l’idea che vorremmo dare di noi agli altri ed a noi stessi. Questo bisogno universale di comunicare, attraverso il corpo, il vissuto personale ha subìto un ridimensionamento ad opera dei grandi monoteismi, accomunati da un senso di avversione alle pratiche di modificazione corporea. I grandi monoteismi proclamano, infatti, l’interdetto contro le manipolazioni corporee, basato sul principio dell’inviolabilità di un corpo che esprime la volontà divina. Le culture presso le quali è stata attuata un’opera di evangelizzazione sono state persuase, più o meno violentemente, ad abbandonare tradizioni millenarie di modificazione corporea.
In questi ultimi decenni  sta curiosamente riemergendo, in seno all’Occidente, un interesse, soprattutto fra i giovani, per alcune pratiche, in particolare per il tatuaggio ed il piercing. Tenendo presente che la loro considerazione sociale, fino a pochi anni fa, era molto negativa, questa attuale diffusione di tali pratiche di modificazione corporea a livello di masse non può essere considerata esclusivamente come un fenomeno di costume destinato a tramontare con il lancio della prossima tendenza. Anche se, in effetti, moltissimi dei tatuaggi e dei piercing vengono scelti sull’onda dell’entusiasmo che deriva dal sentirsi “in”, non bisogna però generalizzare. Dai racconti personali di chi pratica il cutting, il branding, sospensioni e modificazioni corporee che implichino in qualche modo trasformazioni, anatomiche o funzionali, di una certa entità, emerge prepotentemente una diversità di intenti e di ragioni.
Nella maggior parte dei casi sembra esservi una tensione al raggiungimento di modelli estetici alternativi, oltrechè la volontà di personificare il proprio corpo, rendendolo unico, riconoscibile, sottratto alla logica omologante delle masse. Modificare il proprio corpo significa, essenzialmente, riscattarlo dall’anonimato e dall’“afasia” a cui vorrebbero costringerlo le regole sociali.
In altri casi, invece, il corpo si fa strumento di esplorazione delle proprie capacità di resistenza psico-fisica. Gli “adepti” del dolore non sperimentano pratiche estreme inseguendo un piacere che scaturisce dal dolore, come il masochista, né per ricavarne benefici estetici. Si tratta, in questi casi, piuttosto di una ricerca profonda alla scoperta del sé che passa attraverso l’esplorazione del dolore.
Nei casi in cui le tendenze sado-masochiste sono invece più marcate, dove piacere e dolore risultano inscindibili, la pratica di modificazione corporea diventa quasi un gioco erotico, seppure cruento e pericoloso, o forse proprio per questo capace di eccitare il corpo attraverso la mente. In questi casi, la scelta del branding piuttosto che della sospensione è poco importante, quel che conta non è il dettaglio, né l’esteticità del risultato, ma il dolore/piacere che ne derivano. Nel masochista è l’abbandono totale del proprio corpo alla volontà dell’altro ad innescare un processo di erotizzazione del proprio dolore. Viceversa, nel sadico è il delirio di onnipotenza che scaturisce dalla sensazione di poter disporre illimitatamente del corpo altrui ad aprire il canale dell’eccitazione sessuale.
Il sangue, simbolo ambivalente di vita e di morte, di fecondità e castrazione, storicamente utilizzato per stabilire alleanze fra uomini e dei, torna a sancire, negli ambienti sado-masochisti, complicità e sottomissioni che rientrano nelle regole del gioco dei ruoli fra masochisti e sadici, trasformando in vittime sacrificali gli uni e in divinità onnipotenti gli altri. 
Laddove l’infanzia non è stata vissuta come periodo felice della propria storia, ma piuttosto come violenza, fisica e psicologica, dolorosa mancanza di affetto, condizione di impotenza e vulnerabilità, il dolore provato si trasforma in rabbia contro se stessi e il proprio corpo. Quest’ultimo viene quasi sempre, in questi casi, considerato responsabile delle violenze subìte. I comportamenti di chi ha abusato della mancanza di difese del proprio sé ancora bambino vengono in questo modo paradossalmente giustificati dalla provocazione esercitata sugli altri da un corpo, il proprio, difficile da gestire, persino incontrollabile. E’ questo desiderio di riacquisire una capacità di auto-disciplina corporea ad innescare meccanismi auto-punitivi, talvolta irrefrenabili, che spingono al cutting.
Tagliare il proprio corpo non vuol dire semplicemente punirlo sfregiandolo, ma anche trasformarlo in memoria incarnata. Non a caso, il cutting viene praticato in momenti importanti della propria esistenza, particolarmente dolorosi. Quelle tappe esistenziali verranno forse superate, molto più probabilmente soltanto alternate a momenti di apparente benessere (e persino euforia), ma sicuramente ricordate. Ed è proprio questa consapevolezza che spinge all’incisione di quei momenti sul proprio corpo, perché, come le ferite, più profondamente incise nell’animo, rimangano per sempre.
In una realtà che propone continuamente nuove possibilità di essere e di esperire, dove la rapidità del succedersi di sempre nuove esperienze non concede spazi alla riflessione e alla memoria, ma stimola a correre in avanti senza mai fermarsi a guardare indietro, c’è chi invece reagisce alla sensazione spaventosa di perdita del sé tentando di fissare la propria identità anche attraverso una riplasmazione fisica. Laddove la propria identità sembra frammentarsi e dissolversi per effetto dell’ottundimento della memoria generato dalle continue esperienze di vita, sempre nuove, sempre diverse, alcuni sentono il bisogno di consegnare al corpo la memoria del proprio vissuto personale. In una quotidianità sempre più derealizzata, dove reale ed irreale si intrecciano e fondono continuamente, il corpo sembra essere uno dei pochi elementi costanti, certi, reali.
Se un tempo bastava osservare il mondo con occhi ben aperti per farne esperienza, oggi questo approccio prevalentemente visivo è quantomai insufficiente: il nostro sguardo scivola tra realtà effettive e realtà virtuali senza riuscire, troppo spesso, a coglierne la differenza.
I sensi intorpiditi da decenni di apprendimento prettamente visivo, derivato dall’imporsi del dominio dei mass-media, vengono attualmente stimolati al risveglio dalle interazioni sensoriali proposte dalla tecnologia virtuale, nonché dall’azione contestativa di chi sceglie il proprio corpo come luogo della rivolta.
La ferita sanguinante denuncia un malessere che spesso supera i limiti della propria storia personale e si fa storia collettiva. E’ questo l’effetto voluto dal cutting praticato dai performer più estremi operanti nell’ambito della body-art. Ogni taglio è un’altra bocca che si apre sul corpo di chi all’intima convivenza con il proprio disagio preferisce la condivisione collettiva di questo malessere, percepito non come esito di un percorso totalmente personale, quanto piuttosto come risultato di una serie di condizionamenti della propria libertà di essere, di sentire, di esprimersi. La contestazione sociale operata attraverso l’oltraggio del corpo, sottoposto a qualsiasi tipo di violenza fisica, intende risvegliare le coscienze attraverso la provocazione, mettere in guardia dal pericolo di anestetizzazione dei sensi messo in atto dalla cultura mediatica. La performance fisica estrema utilizza un linguaggio totalmente organico per diffondere il suo invito a riappropriarsi del proprio corpo, sottraendolo alla logica del consumo, ispiratrice di modelli estetici e comportamentali innaturali.
Riemerge, lentamente, la consapevolezza del proprio corpo come di ciò che non può esserci sottratto, ciò che solo a noi stessi e ai nostri desideri appartiene.
Privati della possibilità di intervenire direttamente sul reale, sentiamo però di poter disporre illimitatamente della nostra fisicità. Questo radicato senso di appartenenza del corpo a noi stessi, giustifica qualsiasi tipo di esperienza di trasformazione, temporanea o permanente, discreta o estrema, ideologizzata o semplicemente narcisista.
Padroni assoluti di un corpo che non appartiene neppure più a Dio, ci affanniamo nel tentativo, sinora ancora poco riuscito, di ricomporre l’anelata, finora solo potenziale, unità di corpo ed anima. L’aspirazione al superamento del tradizionale dualismo per raggiungere un’unità armonica corpo-spirito, si traduce, nella realtà individuale, piuttosto in un conflitto, generato da aspettative inarrivabili, di un corpo ideale totalmente astratto, che la cultura mediatica propone invece come accessibile, semplicemente un altro oggetto di acquisto.
Traditi da un corpo mai abbastanza vicino ai nostri modelli estetici, cerchiamo una sorta di rassicurazione nelle promesse della scienza e della tecnologia, stimoli continui alla sfida dei limiti umani che per la prima volta sembrano realmente superabili.