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Per “branding” si intende la marchiatura
del corpo, utilizzata, originariamente, come tecnica di riconoscimento
degli animali e in seguito come marchio infamante di denuncia della condizione
di schiavitù, di criminalità, di diserzione, ecc… La marchiatura a fuoco
come punizione dei disertori veniva adottata in Inghilterra ancora fino
al 1842. In seguito, alla marchiatura a fuoco si sostituì quella meccanica,
che si avvaleva di una macchinetta (branding instrument), simile
a quella usata per il tatuaggio, composta di aghi taglienti che imprimevano
sulle carni del disertore, il segno indelebile della propria colpa: una
“D”, appunto. Sul marchio veniva quindi steso, perché rimanesse visibile
per sempre, dell’inchiostro di china o dell’indaco.
In Russia, dove in epoca zarista il tatuaggio era stato messo al bando
perché contrario ai principii religiosi nazionali, il branding
veniva utilizzato per marchiare il volto dei deportati in Siberia per
motivi politici. Il marchio infamante era espresso dalla sigla “K.A.T.
o k.A.T.” impressa a fuoco sul viso.
Attualmente, in Occidente, questa pratica viene volontariamente scelta,
quasi sempre per motivi di ordine estetico, a volte praticata in ambiti
sado-masochisti, come alternativa al tatuaggio o alla scarificazione.
Esistono due modi, essenzialmente, per poter marchiare la propria pelle
attraverso un processo di cauterizzazione:
- marchiatura a fuoco (normal branding);
- branding chimico (chemical branding).
Il normale branding prevede l’utilizzo di metallo rovente che,
premuto sulla pelle (asciutta) lascia un segno. A seconda della pressione
esercitata e dunque della profondità degli strati del derma cauterizzati,
il segno sarà più o meno visibile. Nei casi più estremi, esso è persino
indelebile, cosicchè, nel tempo, si andrà solo attenuando, ossia risulterà
solo meno evidente.
Il branding chimico utilizza l’azione reattiva di alcuni composti
chimici, per esempio quella del nitrato d’argento (AgNO3), reazione che,
sulla pelle, produce una brunitura permanente del tessuto cutaneo interessato,
o del butano.
In alcuni casi, il branding viene praticato per rafforzare legami
affettivi, quasi stabilisse un patto inscindibile fra coloro che condividono,
oltre ad un forte dolore fisico, anche lo stesso marchio, simbolo della
relazione intercorrente fra loro.
Soprattutto quando praticata all’interno di un gruppo composto da soli
uomini, può essere letta come prova di virilità.
In altri casi, dai racconti personali emerge un’attenzione più che per
il branding in sé, per l’aspetto simbolico dell’azione in cui il
fuoco sembra essere caricato di una valenza purificativa.
La zona corporea da marchiare viene solitamente scelta con accuratezza
ed ha spesso un significato simbolico: il torace, ad esempio, viene frequentemente
scelto perché sede del cuore e dunque degli affetti più profondi.
In casi più rari, invece, il branding sembra essere piuttosto una delle
tappe del percorso di crescita personale. Ne è un esempio la storia di
Dawn, raccolta fra le pagine virtuali di un sito in Internet. Lui stesso racconta
la sua esperienza di self-made branding, come fosse una tappa del
tutto naturale all’interno di un doloroso percorso iniziato, all’età di
12 anni, con il cutting, in cui si rifugia nel tentativo di sottrarsi
alla depressione di cui soffre. Il suo corpo si copre di tagli del tutto
casuali, che nulla hanno a che veder con una volontà di personalizzazione
del proprio corpo, né, tantomeno, con una sua esteticizzazione. Dal cutting
passa quindi al branding, iniziando con il surriscaldamento dell’accendino
che viene poi premuto contro il braccio. Affascinata dalle tracce impresse
dall’accendino sulla pelle, Dawn si “specializza” surriscaldando spilli,
iniziando a scrivere, per loro tramite, sulla propria pelle. In un momento
particolarmente difficile della sua esistenza, ai limiti della disperazione,
si marchia a fuoco la parola “LIE” (menzogna) sulla gamba. Nonostante
il dolore bruciante, il branding produce in lei uno stato di ebrezza
indescrivibile, riafferma la sua coscienza, impone l’incorporazione permanente
di una parte della propria vita. Dawn si sente realizzata attraverso il
branding, onesta con se stessa, pronta ad accettare il dolore di
vivere. Per lei che si vergogna di esporre agli sguardi estranei il proprio
dolore marchiato a fuoco, non è certo motivo d’orgoglio, ma ha invece
una valenza simbolica estrema. Quei segni non devono e non possono essere
dimenticati. Il suo branding potrebbe essere eseguito professionalmente,
ma nel suo caso, dove l’elemento estetico non conta affatto, non avrebbe
più alcun senso.
Da alcuni racconti, poi, emerge la percezione della propria esperienza
di marchiatura corporea come iniziazione. Rogan X ne è un esempio. La sua
esperienza di branding viene vissuta come momento di trapasso dalla
fase adolescenziale a quella adulta. In virtù di un dolore sopportato
con coraggio e di un disegno cauterizzato sulla schiena da cui si sente
rappresentato, Rogan X si sente improvvisamente uomo. Il disegno sulla
schiena lo ha scelto con cura; si tratta di un personaggio leggendario:
Phoenix, che da quel momento diventa la sua guida spirituale. Generato
dal fuoco, Phoenix “ (…) rappresenta la luce dentro di me, la possibilità
di prodigarsi per gli altri. Lui è il simbolo del mio passaggio all’età
virile. (…) è semplicemente un passo nel mio percorso spirituale, ma un
passo significativo. Sono felice. Mi ritengo molto più completo di prima.”.
Non bisogna poi dimenticare che molti si sottopongono a pratiche così
estreme semplicemente per provare nuove sensazioni, che spesso accendono
in loro una capacità di analisi rispetto alla realtà quotidiana ed interiore.
Questo è il caso di Amatha: “Decisi di sottopormi
al branding sulla scia del momento: mi ero sottoposta a piercing
e tatuaggi e mi piaceva molto la sensazione che davano da entrambi. Volevo
provare qualcosa di nuovo, caricarmi di nuove endorfine. Non avevo progettato
di farlo quella notte, ma allora vivevo con i miei genitori e, come al
solito, stavano discutendo. (…) Il fuoco ha in sé qualcosa di così purificante.
Non sapevo cosa volessi davvero imprimere a fuoco dentro di me, così iniziai
giusto pensando che avrei voluto fare qualcosa di interessante. (…) Faceva
male, ma in modo positivo. Gridavo, piangevo, esternavo tutto. Il suono
della mia pelle che bruciava mi stimolava a farlo, l’odore pungente ma
buono, somigliava all’odore del sesso. Una sensazione meravigliosa, un
orgasmo attraverso la mia pelle. (…) Ero così consapevole del mio corpo,
così soddisfatta e serena. Non ce l’avevo né con i miei né con me stessa.
Ero solo consapevole della ragione per cui le cose stavano come stavano,
di come ci eravamo allontanati da noi stessi e fra noi. So che suona stupido,
ma, comunque sia, è un’esperienza che risveglia la coscienza.”.
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