4.13 CUTTING


Sono nella doccia
Gratto via
Gratto via il dolore
(…)
Tutti i problemi
gocciolano giù

da Doccia, © Scar 1996


Per “cutting” s’intende la pratica del tagliare se stessi, pratica che potrebbe essere confusa con la scarificazione (e alle volte lo è), mentre in realtà se ne differenzia notevolmente per gli intenti che la sottendono. E’ anche questo, senza dubbio, un incidersi la pelle, ma ben lontano dall’idea di abbellire in questo modo il proprio corpo. I cutter tagliano se stessi senza badare alla forma dell’incisione o alla sua esteticità. Il tagliare è piuttosto uno sfregiare, un modo per esprimere contro di sé tutto il dolore e la rabbia di un malessere che spesso risale ad un’infanzia difficile.
C’è poi chi, invece, taglia il proprio corpo per provare dolore fisico, dolore dal quale alcuni traggono la conferma di esistere, di possedere ancora una sensibilità, e anzi l’esplorazione del dolore permette loro di conoscere più a fondo se stessi, i propri limiti. Altri ancora, infine, ne traggono uno strano piacere adrenalinico. Quest’ultimo è il caso del masochista, in cui dolore fisico e piacere sessuale si mescolano. Nel masochista, in genere, l’operazione del tagliarsi si accompagna a quella dell’essere tagliati. In quel caso, è il sentirsi vittima a erotizzare il cutting, questo totale abbandono del proprio corpo alla volontà di un altro.
Fra le righe dei racconti dei cutter, immancabilmente si coglie un malessere profondo, una disperazione e un senso di colpa che affondano le loro radici in un’infanzia particolarmente tormentata, di cui il soggetto non sembra riuscirsi a liberare. 
Alla violenza subìta da bambini, violenza fisica o psicologica, i cutter reagiscono colpevolizzando il proprio corpo, giustificando coloro che quelle violenze le hanno messe in atto ritenendo responsabile di esse se stessi e la propria fisicità. Quest’ultimo viene percepito come oggetto provocatorio, luogo di sofferenza, spazio conflittuale, che sfugge al proprio controllo ed alla propria coscienza, meritevole di punizioni, da parte di terzi o auto-inflitte.
In particolare, laddove dietro il cutting si cela un’esperienza di violenza sessuale subìta da una donna nel corso dell’infanzia, esso diviene espediente di eliminazione della propria femminilità. Tagliarsi viene percepito piuttosto come tentativo di scolpire se stesse recuperando una forma androginica immune dall’interesse maschile.
In questi casi c’è dunque un esplicito rifiuto della propria sessualità e un bisogno estremo di controllo sul proprio corpo.  Il piacere viene mediato dal dolore fisico, capace di accendere i sensi tramite le scariche di adrenalina prodotte, oltre che dal taglio in sé, anche dal sanguinamento. Il sangue, infatti, gioca in questi casi un ruolo centrale, attrae e spaventa allo stesso tempo, contribuendo in questo modo ad erotizzare l’esperienza. “Questo è il mio corpo e ne faccio quel che scelgo di fare. (…) vedere il mio sangue sulle mie dita è guardare dentro me stessa come attraverso un microscopio personale, essere bella ai miei occhi. (…) Il momento migliore di un cutting è quello della penetrazione della pelle: è il momento in cui si lotta contro l’istinto di arrestare il dolore. (…) Il sangue scorreva lungo la mia spina dorsale (…). Considerami pazza, ma è una delle sensazioni più erotiche che esista. (…) Quando sanguini succede qualcosa di speciale che sviluppa il tuo stato fisico (…) ”[127]. Questo è un esempio, uno fra i tanti, di cutting operato per il piacere di veder scorrere il proprio sangue, di sentirsi padroni assoluti del proprio corpo, del proprio dolore e del proprio sanguinamento.
Tale pratica ha inoltre, quasi sempre, una funzione commemorativa dei propri vissuti più dolorosi. La lama, incidendo, segna la pelle per sempre, così come la vita stessa, attraverso esperienze più o meno devastanti, incide, permanentemente, l’animo.
Il cutter non riesce a liberarsi di questa sua sofferenza ed è consapevole che superarla non significa dimenticarla. Ogni cicatrice, in lui, racconta una parte della sua storia, da raccontare a se stessi, non agli altri. A differenza di chi si sottopone a scarificazione, infatti, il cutter non espone le proprie cicatrici con orgoglio, come si fa per un tatuaggio, piuttosto le nasconde, relegandole alla sfera della propria intimità. Tagliarsi diventa uno strumento di analisi del sé, strumento di riflessione profonda del proprio passato.
Il mondo dei cutter sta lentamente emergendo dalla clandestinità, grazie anche ad Internet e alle auto-denunce di personaggi noti, come realtà spaventosamente diffusa. Esistono persino vere e proprie associazioni che tentano di creare una catena di solidarietà attorno a coloro che soffrono di questi disturbi, di smuovere le coscienze e creare i presupposti per una maggiore sensibilizzazione nei confronti del problema. Quella di Violet è solo una delle tante esperienze raccolte in Internet.[128] Violet ha vent’anni, dice di non ricordare la sua prima esperienza di cutting. “Non fu una ferita molto profonda, ma piuttosto lunga (circa 11 inches), dalla parte alta della coscia fino quasi al ginocchio. Stringevo fra le mai un rasoio e lo lasciai scorrere lungo la gamba, molto lentamente. La più bella ombra del silenzio scorreva giù lungo la gamba e ne ebbi paura. Era stato così naturale scegliere quell’oggetto e lasciarlo scivolare attraverso la mia gamba. Ero eccitata e mi piaceva quel modo di sentirmi. Ero talmente esaltata e mi sentivo così al sicuro. Uno strano senso di sicurezza, credo. Era soprattutto quella sensazione di sicurezza a spaventarmi, cosicchè per un po’non mi tagliai più. Più prendevo coscienza di quel che avevo fatto e di quel che avevo provato, più pensavo di farlo di nuovo. E’ iniziati molto innocentemente, se così si può dire, ma si è poi evoluto in situazioni sempre più intricate. Ero solita usare delle forbici o degli oggetti semplicemente affilati. Da allora [alcune cose sono cambiate:] preferisco le lamette e sono molto più attente a quando, cosa e come taglio. Mi sono prodotta dei tagli, la maggior parte dei quali è sparita guarendo. Ho anche cicatrici più evidenti, ma nessuna di esse a vista, ad eccezione di quella sul braccio. Lì, ravvicinati tra loro, vi sono anche dei taglietti sottilissimi prodotti con delle lamette a cui mi sono affezionata. Sono soprattutto cicatrici “auto-mutilanti/espressione di odio contro me stessa”, cicatrici degli anni della mia adolescenza come dico semplicemente ai miei amici più chiari quando mi chiedono. Le cicatrici sull’avambraccio destro sono una serie di nove ferite parallele di diversa grandezza che ho ormai accettato come indelebili.sono lì da cinque anni, mi hanno fatto un male terribile, a differenza delle altre, più superficiali. Le mie incisioni sono soprattutto sugli avambracci. Non mi ero resa conto di quanto fossero visibili e non avevo creduto che la gente potesse essere così ottusa da chieder di cosa si tratta e perché me le sono procurate. Da questo ho imparato ad accettare quel che faccio e a considerarlo come una questione di gusti personali, di cui non dovrei vergognarmi. Se solo avessi saputo prima quel che so ora…avrei praticato incisioni solo in parti del corpo non esposte. Mi esalto ogni volta che penso alla mia schiena scarificata, ma mi frena un po’ l’idea di affidare a qualcun altro il controllo su di me. (…) Per sei mesi non ho praticato alcuna scarificazione, anche se ci ho pensato in continuazione e mi meravigliavo di come poterla incorporare in un’esperienza sessuale. (…) Scarificazione è per me la forma di body-art per eccellenza, più del tatuaggio o del piercing. Mi rende fisicamente “unica” ed ha una serie di valenze simboliche per me rilevanti, oltre ad avere una sua incredibile bellezza. La sensazione precedente all’inizio dell’incisione è straordinaria: così tante emozioni scorrono attraverso il mio corpo e così tante cose vorrei poter lasciarne uscire.