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Sono
nella doccia
Gratto via
Gratto via il dolore
(…)
Tutti i problemi
gocciolano giù
da
Doccia, © Scar 1996
Per “cutting” s’intende la pratica del
tagliare se stessi, pratica che potrebbe essere confusa con la scarificazione
(e alle volte lo è), mentre in realtà se ne differenzia notevolmente per
gli intenti che la sottendono. E’ anche questo, senza dubbio, un incidersi
la pelle, ma ben lontano dall’idea di abbellire in questo modo il proprio
corpo. I cutter tagliano se stessi senza badare alla forma dell’incisione
o alla sua esteticità. Il tagliare è piuttosto uno sfregiare, un modo
per esprimere contro di sé tutto il dolore e la rabbia di un malessere
che spesso risale ad un’infanzia difficile.
C’è poi chi, invece, taglia il
proprio corpo per provare dolore fisico, dolore dal quale alcuni traggono
la conferma di esistere, di possedere ancora una sensibilità, e anzi l’esplorazione
del dolore permette loro di conoscere più a fondo se stessi, i propri
limiti. Altri ancora, infine, ne traggono uno strano piacere adrenalinico.
Quest’ultimo è il caso del masochista, in cui dolore fisico e piacere
sessuale si mescolano. Nel masochista, in genere, l’operazione del tagliarsi
si accompagna a quella dell’essere tagliati. In quel caso, è il sentirsi
vittima a erotizzare il cutting, questo totale abbandono del proprio
corpo alla volontà di un altro.
Fra le righe dei racconti dei cutter, immancabilmente si coglie
un malessere profondo, una disperazione e un senso di colpa che affondano
le loro radici in un’infanzia particolarmente tormentata, di cui il soggetto
non sembra riuscirsi a liberare.
Alla violenza subìta da bambini, violenza fisica o psicologica,
i cutter reagiscono colpevolizzando il proprio corpo, giustificando
coloro che quelle violenze le hanno messe in atto ritenendo responsabile
di esse se stessi e la propria fisicità. Quest’ultimo viene percepito
come oggetto provocatorio, luogo di sofferenza, spazio conflittuale, che
sfugge al proprio controllo ed alla propria coscienza, meritevole di punizioni,
da parte di terzi o auto-inflitte.
In particolare, laddove dietro il cutting si cela un’esperienza
di violenza sessuale subìta da una donna nel corso dell’infanzia, esso
diviene espediente di eliminazione della propria femminilità. Tagliarsi
viene percepito piuttosto come tentativo di scolpire se stesse recuperando
una forma androginica immune dall’interesse maschile.
In questi casi c’è dunque un esplicito rifiuto della propria sessualità
e un bisogno estremo di controllo sul proprio corpo. Il
piacere viene mediato dal dolore fisico, capace di accendere i sensi tramite
le scariche di adrenalina prodotte, oltre che dal taglio in sé, anche
dal sanguinamento. Il sangue, infatti, gioca in questi casi un ruolo centrale,
attrae e spaventa allo stesso tempo, contribuendo in questo modo ad erotizzare
l’esperienza. “Questo è il mio corpo e ne faccio quel che scelgo di fare.
(…) vedere il mio sangue sulle mie dita è guardare dentro me stessa come
attraverso un microscopio personale, essere bella ai miei occhi. (…) Il
momento migliore di un cutting è quello della penetrazione della
pelle: è il momento in cui si lotta contro l’istinto di arrestare il dolore.
(…) Il sangue scorreva lungo la mia spina dorsale (…). Considerami pazza,
ma è una delle sensazioni più erotiche che esista. (…) Quando sanguini
succede qualcosa di speciale che sviluppa il tuo stato fisico (…) ”. Questo è un esempio,
uno fra i tanti, di cutting operato per il piacere di veder scorrere
il proprio sangue, di sentirsi padroni assoluti del proprio corpo, del
proprio dolore e del proprio sanguinamento.
Tale pratica ha inoltre, quasi sempre, una funzione commemorativa dei
propri vissuti più dolorosi. La lama, incidendo, segna la pelle per sempre,
così come la vita stessa, attraverso esperienze più o meno devastanti,
incide, permanentemente, l’animo.
Il cutter non riesce a liberarsi di questa sua sofferenza ed è
consapevole che superarla non significa dimenticarla. Ogni cicatrice,
in lui, racconta una parte della sua storia, da raccontare a se stessi,
non agli altri. A differenza di chi si sottopone a scarificazione, infatti,
il cutter non espone le proprie cicatrici con orgoglio, come si
fa per un tatuaggio, piuttosto le nasconde, relegandole alla sfera della
propria intimità. Tagliarsi diventa uno strumento di analisi del sé, strumento
di riflessione profonda del proprio passato.
Il mondo dei cutter sta lentamente emergendo dalla clandestinità,
grazie anche ad Internet e alle auto-denunce di personaggi noti, come
realtà spaventosamente diffusa. Esistono persino vere e proprie associazioni
che tentano di creare una catena di solidarietà attorno a coloro che soffrono
di questi disturbi, di smuovere le coscienze e creare i presupposti per
una maggiore sensibilizzazione nei confronti del problema. Quella di Violet
è solo una delle tante esperienze raccolte in Internet. Violet ha vent’anni,
dice di non ricordare la sua prima esperienza di cutting. “Non
fu una ferita molto profonda, ma piuttosto lunga (circa 11 inches),
dalla parte alta della coscia fino quasi al ginocchio. Stringevo fra le
mai un rasoio e lo lasciai scorrere lungo la gamba, molto lentamente.
La più bella ombra del silenzio scorreva giù lungo la gamba e ne ebbi
paura. Era stato così naturale scegliere quell’oggetto e lasciarlo scivolare
attraverso la mia gamba. Ero eccitata e mi piaceva quel modo di sentirmi.
Ero talmente esaltata e mi sentivo così al sicuro. Uno strano senso di
sicurezza, credo. Era soprattutto quella sensazione di sicurezza a spaventarmi,
cosicchè per un po’non mi tagliai più. Più prendevo coscienza di quel
che avevo fatto e di quel che avevo provato, più pensavo di farlo di nuovo.
E’ iniziati molto innocentemente, se così si può dire, ma si è poi evoluto
in situazioni sempre più intricate. Ero solita usare delle forbici o degli
oggetti semplicemente affilati. Da allora [alcune cose sono cambiate:]
preferisco le lamette e sono molto più attente a quando, cosa e come taglio.
Mi sono prodotta dei tagli, la maggior parte dei quali è sparita guarendo.
Ho anche cicatrici più evidenti, ma nessuna di esse a vista, ad eccezione
di quella sul braccio. Lì, ravvicinati tra loro, vi sono anche dei taglietti
sottilissimi prodotti con delle lamette a cui mi sono affezionata. Sono
soprattutto cicatrici “auto-mutilanti/espressione di odio contro me stessa”,
cicatrici degli anni della mia adolescenza come dico semplicemente ai
miei amici più chiari quando mi chiedono. Le cicatrici sull’avambraccio
destro sono una serie di nove ferite parallele di diversa grandezza che
ho ormai accettato come indelebili.sono lì da cinque anni, mi hanno fatto
un male terribile, a differenza delle altre, più superficiali. Le mie
incisioni sono soprattutto sugli avambracci. Non mi ero resa conto di
quanto fossero visibili e non avevo creduto che la gente potesse essere
così ottusa da chieder di cosa si tratta e perché me le sono procurate.
Da questo ho imparato ad accettare quel che faccio e a considerarlo come
una questione di gusti personali, di cui non dovrei vergognarmi. Se solo
avessi saputo prima quel che so ora…avrei praticato incisioni solo in
parti del corpo non esposte. Mi esalto ogni volta che penso alla mia schiena
scarificata, ma mi frena un po’ l’idea di affidare a qualcun altro il
controllo su di me. (…) Per sei mesi non ho praticato alcuna scarificazione,
anche se ci ho pensato in continuazione e mi meravigliavo di come poterla
incorporare in un’esperienza sessuale. (…) Scarificazione è per me la
forma di body-art per eccellenza, più del tatuaggio o del piercing.
Mi rende fisicamente “unica” ed ha una serie di valenze simboliche per
me rilevanti, oltre ad avere una sua incredibile bellezza. La sensazione
precedente all’inizio dell’incisione è straordinaria: così tante emozioni
scorrono attraverso il mio corpo e così tante cose vorrei poter lasciarne
uscire.
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