4.12 SCARIFICAZIONE


Sotto la denominazione “scarificazione” rientrano le pratiche di incisione profonda del derma - seguendo i contorni di un disegno preventivamente eseguito sulla pelle - e ripetuta più volte, fino ad ottenere cicatrici in rilievo. Si può avere scarificazione di tipo semplice, ossia che si risolve in cicatrici piane, o trattata, se invece produce cicatrici in rilievo o rigonfiamenti (cheloidi).
Fra le popolazioni dell’Africa centrale e meridionale, di pelle più scura, tale pratica si sviluppò, per ovvie ragioni di ordine pratico, in luogo del tatuaggio.
Fra le donne, le zone corporee interessate su cui venivano praticate tali incisioni erano, solitamente, la fronte, le guance, il dorso e il torace. Negli uomini, invece, più diffusa era la scarificazione della schiena, alla quale seguiva, frequentemente, l’introduzione nelle ferite di piccoli sassolini che creassero un effetto decorativo sul modello geometrico o lineare.

La scarificazione rientra fra le pratiche di iniziazione rituale più diffuse, in quanto il passaggio dalla condizione pre-puberale a quella adulta è facilmente provato dal coraggio dimostrato nel superare un dolore fisico così forte.
Per citare un esempio di scarificazione cerimoniale, De Blasio[125] ricorda come la scarificazione del dorso delle ragazze delle sponde del Marray avvenisse appunto, ritualmente, in concomitanza con il loro raggiungimento della fase puberale. Le iniziande, genuflesse, posavano il capo sulle ginocchia di una robusta vecchia e l’operatore (necessariamente uomo), detto Coradiis, procedeva da questa posizione all’incisione del dorso, detta kobong, servendosi di frammenti di conchiglie, di vetro o di selce. Il dolore immenso procurato alle ragazze non dissuadeva il Coradiis dal continuare la scarificazione, persino quando la giovane donna rischiava di morirne, perché consapevole che dalla buona riuscita del suo intervento dipendeva la possibilità della giovane di trovare marito.
“Per un dorso bene scarificato spesso hanno colà luogo dei rusticani duelli.”[126]
Benché il dolore fisico connesso alla pratica della scarificazione sia estremo, molte tribù africane continuano tutt’oggi a sottoporvisi, perché imprescindibile è il loro valore culturale, sociale e religioso.
Attualmente, in Occidente, tale pratica si sta diffondendo, soprattutto come alternativa al tatuaggio, di cui conserva la funzione decorativa. Rispetto ad esso, la scarificazione è però molto più dolorosa e richiede una buona dose di determinazione, che ne consente di ripetere il procedimento numerose volte, fino al raggiungimento dei risultati voluti.
Soprattutto l’auto-scarificazione, fra i giovani occidentali è considerata dimostrazione di coraggio, manifestazione della volontà di sottrarsi alle mode del momento, sinonimo di reale anti-conformismo e sentito bisogno di esprimersi attraverso il proprio corpo. In molti casi, inoltre, l’auto-scarificazione è percepita come reale possibilità di esprimere la propria creatività, eliminando ogni mediazione fra l’esecutore – sia della pratica che del disegno - e il soggetto da scarificare.
Per facilitare la formazione di cheloidi (cicatrici in rilievo) o semplicemente impedire una normale cicatrizzazione della ferita, il taglio viene trattato con sostanze basiche: della calce, presso le culture d’interesse etnologico, delle sostanze di uso comune, quali la pasta dentifricia, in Occidente.



[125] De Blasio A., Il tatuaggio., Arnaldo Forni Editore, Napoli, 1905, pp.40-41.
[126] De Blasio A., op. cit., pp.40-41.