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“La convinzione di essere un individuo è la nostra maggior limitazione.”
(Pir Vilayat Khan)
Durante queste sue performance, Orlan espone i progetti presentati
in occasioni di conferenze e festival e mostra foto e videoclip
relativi agli interventi chirurgici che in quelle occasioni hanno avuto
corso. “Il mio corpo è la mia arte” è il motto che l’ha spinta a collezionare
ricordi delle sue operazioni e a custodirli in teche di plexiglas esposte
nel suo studio in Francia. Questi “reliquiari” contengono parti della
sua carne, conservati in una soluzione, parti del suo cuoio capelluto,
da cui ancora pendono suoi capelli, cellule di grasso, prelevata dal suo
viso, o brandelli di vecchi bendaggi, che hanno assorbito il suo sangue
durante le operazioni. Le “reliquie” vengono provocatoriamente messe in
vendita al prezzo di 10.000 franchi. Lei stessa, ironicamente, afferma
che continuerà a proporre la vendita delle sue “reliquie” fino a che non
avrà “più carne da poter vendere”.
Le performance di Orlan richiedono uno stomaco forte; nel corso
delle stesse accade anche che molti, spettatori e spettatrici, abbandonino
la sala durante la proiezione dei videoclip. Parecchie persone
non riescono a sopportare la vista dell’artista nel suo dirigere la regia
del taglio del suo stesso corpo. Le reazioni variano: dall’irritazione
allo svenimento di alcuni spettatori – come è accaduto a Vienna. Orlan,
introducendo le sue performance, si scusa con il pubblico presente
per il disagio che la crudezza delle immagini provocherà loro e giustifica
tale brutalità affermando che la finalità dell’arte è quella del superamento
dei limiti, l’infrazione consapevole dei tabù, nonché l’essere sgradevole.
(“L’arte non ha la funzione di decorare i nostri appartamenti, dal momento
che di decorazioni ne abbiamo già parecchie: acquari, piante, tappeti,
tendaggi, mobili…”). L’artista ed il pubblico
devono provare malessere, secondo Orlan, perché ci obbliga a delle riflessioni.
In ogni suo progetto, Orlan mostra tutta la sua irriverenza nei confronti
dell’establishment, la sua rabbia e la sua volontà di prendersi
gioco dell’iconografia tradizionale. Le sue performance sono prese
di posizione contro la datità umana, contro Dio, la Natura, il DNA stesso.
Uno dei suoi lavori viene ispirato dal testo di Antonin Artaud in cui
l’autore propone l’idea di un corpo senza organi, idea che rifiuta la
confusione tra corpo ed organismo, nonché l’identificazione del corpo
con i suoi organi. Al contrario, Artaud ritiene l’organismo responsabile
della deteriorabilità del corpo. Sarebbe dunque l’organismo soggetto a
deperimento, e non il corpo, che dovrebbe essere reso autonomo rispetto
alla sua organicità. Orlan, rileggendo Artaud, identifica in un processo
di ibridazione tra naturale e artificiale, la possibilità di assicurare
al corpo una sua autonomia.
Attraverso la sua arte, Orlan si interroga sullo status del corpo
nella nostra società e sul suo futuro in rapporto alle nuove tecnologie.
La tradizione vuole che l’idea di corporeità sia connessa alle idee di
“innato”, di “dato da Dio” o “legato al destino della vita umana”. Le
tecnologie moderne hanno annullato queste associazioni rendendole obsolete.
La manipolazione genetica e la chirurgia estetica hanno infatti ormai
raggiunto risultati tali da qualificare l’intervento umano sulla natura,
il proseguimento della ricerca scientifica e la fiducia che i nostri bisogni
e i nostri desideri verranno soddisfatti.
Orlan, come Stelarc ed altri, ritengono che in futuro i corpi perderanno
sempre più significato, saranno niente più che un costume, un veicolo,
comunque modificabile ed adattabile alle nostre temporanee auto-percezioni.
Nelle sue performance, sebbene si affermi la volontà di padroneggiare
le tecniche di dominio della natura, viene sempre, allo stesso tempo,
stimolata la riflessione sulle infinite, talvolta incaute, possibilità
generate da questo dominio.
Partendo dall’analisi di un malessere generalizzato rispetto al vissuto
corporeo, Orlan denuncia l’incapacità del corpo di rappresentare l’individuo.
Profondamente convinta della necessità di trasformare il corpo in modo
che comunichi a se stessi e agli altri quello che noi sentiamo di essere
ed altrettanto certa che sia soprattutto il volto a rappresentarci, Orlan
inizia un processo metamorfico identitario imperniato sulla manipolazione
plastica del viso. Quest’ultimo viene pensato come maschera, nella sua
funzione simbolica, che annienta l’identità del soggetto, all’interno
della tragedia greca. In realtà, Orlan non sembra essere la sola a ritenere
che attraverso il volto possa trasparire la nostra identità. M. Argyle
a questo proposito scrive: “La personalità è connessa in particolar modo
al viso, e l’aspetto del volto viene manipolato per trasmettere informazioni
sulla persona. Nelle società primitive spesso vengono indossate maschere,
che nascondono l’identità e lo stato emotivo di chi le porta. Ciò può
avere l’effetto di produrre un comportamento disinibito, come nel caso
di un ballo mascherato, oppure l’effetto di indurre chi la porta a recitare
il ruolo suggerito dalla maschera.” L’artista giustifica il
suo progetto di ricostruzione della propria identità attraverso la riplasmazione
del proprio volto, affermando che il corpo mente, servendosi delle parole
della psicoanalista lacaniana Eugénie Lemoine-Luccioli che, nel testo
La robe, scrive: “La pelle inganna (…). Nella vita, si ha
solo la propria pelle (…) c’è un errore nelle relazioni umane perché uno
non è mai ciò che ha (…). Ho una pelle d’angelo ma sono una iena, ho una
pelle di coccodrillo ma sono un cucciolo, una pelle nera ma sono bianco,
una pelle da donna ma sono un uomo; non ho mai la pelle di ciò che sono”.
Come dice la stessa Orlan: “Nel momento in cui vorrei diventare un altro,
divento me stesso”. “Sono un bulldozer: dominante ed aggressiva…ma se
questa mia identità si fissa una volta per tutte, allora è un problema…Per
questo mi rinnovo, diventando timida e delicata…”.
Il volto di Orlan, da lei stessa riprogettato è emblema di un’identità
mobile, plastica, assolutamente flessibile. L’artista francese desidera
cambiar pelle, in un continuo camaleontico, conciliare l’identità interiore
del momento e quella esteriore. Teresa Macrì, a questo proposito, ha osservato:
“(…) la volontà di ricorrere alla chirurgia plastica, nel caso particolare
di Orlan, è la volontà politica di colmare l’abisso tra apparenza ed esistenza.” Il progetto di identità
di Orlan è estremamente radicale: sperimentare identità diverse si traduce
nella modificazione chirurgica della sua fisicità. Corpo, sangue e muscoli
sono strumenti, insieme alla tecnica chirurgica, di questa trasformazione
identitaria - peraltro non ancora conclusa - finalizzata alla creazione
di un archetipo di “corpo in divenire”. Il suo progetto concretizza
l’idea di un’identità mutevole e prende le distanze da un’identità astratta
che, una volta costituita, diventi certa e permanente. Orlan adotta la
strategia chirurgica non per modellare il suo viso, una volta per tutte,
secondo canoni estetici definiti, ma ispirata dall’identità del momento,
quell’identità nomade, continuamente cangiante, che si crea, si lacera,
si trasforma ed evolve continuamente in ognuno di noi.
Orlan, inoltre, respinge l’idea di “genere” (gender) come categoria
fissa, laddove dichiara: “Sono un’azione transessuale da donna a donna”. L’artista percepisce
se stessa piuttosto come simile a un cyborg – l’essere metaforico
ibrido in parte umano e in parte macchina – la cui identità è in perenne
divenire.
IL TENTATIVO FEMMINISTA DI
RIAPPROPRIAZIONE
CORPOREA DA PARTE DI ORLAN
L’arte di Orlan è anche lotta politica contro gli abusi di una società
maschilista.
Attraverso la sua plasmazione identitaria servendosi della chirurgia plastica,
Orlan ha infatti contribuito, in modo decisivo, ad una contestazione attiva
del concetto di “bello”, imposto dalla contemporaneità occidentale, che
sottomette il mondo femminile a modelli di desiderabilità inarrivabili
creati dall’immaginario maschile. L’artista francese lascia che sia il
suo corpo di donna a parlare per lei, che sia esso a denunciare il disagio
femminile, la discriminazione a cui le donne vengono ancora oggi sottoposte.
A questo proposito, con il suo progetto “Santa Orlan”, propone il conflitto
non superato – origine di una delle tante discriminazioni - nel quale
la cultura imbriglia la figura femminile, ossia quello fra la figura della
puttana e quello della madonna, due realtà distanti, inconciliabili, per
il sociale, ma, evidentemente, non per Orlan.
Ma l’artista si spinge oltre la denuncia, concretizzando, attraverso l’uso
“blasfemo” della chirurgia plastica la decostruzione dei modelli estetici
maschilisti a cui le donne occidentali, dalla Grecia classica in poi,
non riescono a sottrarsi.
Per quanto paradossale, Orlan ricorre alla chirurgia estetica per sovvertirne
gli intenti, ossia per demolire il concetto estetico sul quale la stessa
chirurgia si fonda.
In una società in cui il ricorso alla chirurgia plastica viene giustificato
solo se conforme alle norme etiche (eufenica) o a quelle estetiche imperanti,
l’artista sottomette la tecnica chirurgica alla sua personalissima idea
di identità “in progress”.
Con il suo gesto estremo e sacrificale, Orlan denuncia l’omologazione
del pensiero occidentale, l’ideologia estetica dominata dalla canonizzazione
di stereotipi femminili o maschili e impone la ricostruzione facciale
come ricostruzione del sé.
Ad un’analisi superficiale, i progetti artistici di Orlan sembrerebbero
contraddire questa sua esplicitata volontà di riscatto del femminile,
soprattutto in considerazione dell’utilizzo della chirurgia estetica o
del suo auto-ritratto ispirato dalle bellezze della classicità.
La chiave di volta è proprio in questa sua totale indipendenza dai canoni
estetici imperanti e nell’aver utilizzato le tecniche chirurgiche contro
se stesse: la chirurgia estetica non è stata da lei utilizzata per migliorare
il suo aspetto fisico, tutt’altro. Il sabotaggio della chirurgia estetica
operato da Orlan non sempre è stato compreso, soprattutto dai chirurghi
plastici uomini che non riuscivano a concepire la chirurgia estetica se
non come “migliorativa”.
Per Orlan, la chirurgia plastica è semplicemente un valido strumento di
auto-determinazione attraverso il quale le donne possono assumere una
forma di controllo sui loro corpi. La differenza fra Orlan e la maggioranza
delle donne che subisce interventi di chirurgia estetica, è solo una questione
di sfumature: l’artista è solo un esempio estremo di un fenomeno che scaturisce
dagli stessi presupposti: le donne, tramite interventi di chirurgia estetica,
vogliono, per così dire, “essere Pigmalioni di se stesse.” Il motivo reale
che induce le donne a sottoporsi ad interventi di chirurgia estetica è
il disagio con cui vivono il rapporto con il loro corpo, che non sentono
corrispondere alla percezione che hanno di se stesse. Intervenire sul
corpo con la chirurgia estetica rappresenta per loro una strategia efficace
per ridurre questo scarto fra l’interiorità e l’esteriorità, cosicché
gli altri possano vederle per come esse vedono se stesse. Le donne che
si sottopongono ad interventi di chirurgia estetica, come Orlan, tentano
di riplasmare, attraverso un rimodellamento del corpo, anche la loro vita.
La grande differenza fra il ricorso alla chirurgia estetica da parte delle
donne e quello operato da Orlan consiste nel fatto che nel progetto di
Orlan non si affronta un problema di vita reale, ma d’arte. Orlan non
si serve della chirurgia estetica per ridurre le sue sofferenze al suo
corpo, ma per potersi esprimere, in modo aperto e diretto, sul concetto
di bellezza puramente astratto, sull’identità e sulla capacità di agire
giuridicamente. Il suo corpo è poco più di un “veicolo” per la sua arte
e i suoi sentimenti personali sono, in questa interdipendenza, assolutamente
irrilevanti. Quando le si chiede del dolore che deve aver provato, si
limita ad alzare le spalle e dice: ”L’arte è un lavoro sporco, ma qualcuno
deve pur farlo.” Orlan si sente animata
da una missione: rompere con le convenzioni e, così facendo, provocare
la gente, mettere in discussione i tabù. “L’arte può e deve cambiare il
mondo, perché questa è la sua unica giustificazione”.
Il viso progettato da Orlan e realizzato dalle tecniche chirurgiche non
è il viso ridisegnato dalle logiche capitalistiche, che ripropongono canoni
stereotipati per sollecitare una domanda di mercato.
Orlan si sottrae a questa logica dominante formulando altre pratiche e
altre sembianze, contrapposte alle formulazioni imposte e correnti. Rispetto
ad esse, il corpo nuovo, mutante, che Orlan formula è un corpo antitetico,
antibello, del tutto anomalo.
Dopo aver trasformato il suo volto mixando le bellezze classiche, Orlan
progetta un intervento, svoltosi a New York, che avrebbe dovuto rialzarle
gli zigomi. In realtà, l’intervento porterà all’innesto delle due protesi,
inizialmente destinate agli zigomi, sui lati opposti della fronte. Le
due protuberanze frontali annullano ogni tensione a riprodurre gli stereotipi
di bellezza ufficiali ed appaiono piuttosto come “corna nascenti”. Deestetizzanti, risvegliano
profonde inquietudini, trasformano Orlan in una creatura ibrida, quasi
mitologica. In Orlan, donna-satiro, la femminilità si sposa all’animalità
in un incontro destabilizzante.
Tra i suoi progetti futuri, c’è quello di sottoporsi ad intervento chirurgico
per ottenere un naso enorme, “il più grande naso fisicamente possibile”,
che inizi al centro della fronte. In questo modo, il volto di Orlan si
allontana radicalmente dall’ideale maschilista di perfezione femminile.
Il suo “ideale” è invece assolutamente anticonformista. Orlan, si sforza
di ricordarci che non dobbiamo far altro che liberare la nostra capacità
immaginativa per poter finalmente diventare le persone che vorremmo essere.
LA CONTESTAZIONE SOCIALE ATTUATA DAL CYBERPUNK
ATTAVERSO IL CORPO
Nell’Inghilterra degli anni ’70, nell’ambito del movimento punk,
movimento di contestazione sociale, che si esprime liberando le pulsioni
aggressive in ogni loro forma, apertamente violenta o semplicemente provocatoria
e trasgressiva, trovano espressione le performance attuate dai
promotori del cyberpunk. Le performance dei Coum Transmission,
esternano visivamente, oltraggiando il corpo, sottoponendolo a vere e
proprie sevizie, i fondamenti della cultura punk, nel tentativo
di risvegliare una coscienza critica nello spettatore.
Sono i perversi meccanismi sociali, quegli stessi meccanismi produttori
di tendenze omologative dell’individuo alla massa e di quelle soppressive
della creatività del singolo, che vengono rabbiosamente, violentemente
e dolorosamente rifiutati. La cultura punk, dunque, si propone
come volontà di riconquista delle libertà personali di scelta, di espressione
del proprio modo di essere o non essere.
Anche in questo caso, la contestazione sociale passa attraverso il corpo,
il dolore fisico manifesto, l’uso di materiali e flussi organici e azioni
autolesionistiche.
Il corpo ideale, secondo l’aspirazione della cultura cyberpunk,
è materia estensibile che, inglobando le tecnologie, amplifica le proprie
potenzialità.
La macchina viene, in questo senso, recuperata come estensione umana,
combinata all’azione ed al pensiero umano per produrre musica, suoni,
eventi.
Il movimento conosciuto come “cyberpunk”, è rappresentato da gruppi
performatici itineranti, fra cui emergono gli SRL (Survival Research Laboratories),
i Mutoid Waste Company, La Fura Dels Baus.
Si tratta di gruppi di giovani performer che scelgono di vivere
in “case viaggianti”, non come viaggiatori, quanto, piuttosto, come viandanti.
La differenza sta nel fatto che il loro interesse non sta tanto nel visitare
nuovi luoghi, quanto nel fare esperienza di ogni cosa. Non ci sono regole,
non ci sono limitazioni. L’esistenza diventa un corso di sopravvivenza
continuo, dove si impara a vivere con il minimo indispensabile, a non
gettare nulla e soprattutto a riciclare continuamente, gli oggetti e se
stessi. Mutanti in una realtà mutante. L’arte non ha bisogno che di benzina
(per viaggiare), di grande creatività, emozioni, capacità comunicativa
e resti. Resti di auto, resti di animali, resti di qualunque cosa vengono
combinati in forme nuove, rivitalizzati, svuotati dei vecchi significati
funzionali ed investiti di nuovi contenuti simbolici.
La maggior parte di coloro che operano in questi gruppi provengono dalla
scena punk o dal teatro di strada, convinti che l’umanità sia ormai
impotente rispetto agli sviluppi futuri della realtà e che l’unica possibilità
sia quella di esorcizzare la paura del futuro semplicemente vivendo, divertendosi
e producendo divertimento. Avendo ormai perso il controllo della situazione,
ci aspettano distruzioni, catastrofi ecologiche, guerre. Non rimane che
utilizzare il tempo che ancora rimane per divertirci.
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