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A partire dagli anni '60, si sono avuti movimenti di critica e contestazione
della società occidentale, interni ad essa, volti a colpire le logiche
omologanti e desensibilizzanti che animano la nostra società. Bersagli
preferenziali di questa critica sono stati i mass-media, ritenuti
responsabili di un malessere generale e diffuso, ma soprattutto crescente.
Sul versante artistico, proprio
in quegli anni, questa stessa contestazione ha scelto il corpo come luogo
e strumento di contestazione del sociale. Le performance nate all’interno
della body-art si propongono di recuperare ed anzi di riacutizzare
le capacità senzienti del corpo, capacità notevolmente ridotte dall’anestetizzazione
prodotta dai mass-media.
All’interno di questa corrente, il corpo viene oltraggiato, umiliato,
mortificato, sottoposto a vere e proprie torture, talvolta, nel tentativo
di risvegliarne la coscienza, sociale e individuale. Nelle performance,
il corpo viene stimolato senza alcuna mediazione, cosicché i sensi, finalmente
liberati da una loro immotivata gerarchizzazione, possano finalmente tornare
ad essere coinvolti, tutti, nella percezione del reale.
Il linguaggio con cui la critica dei performer viene espressa è
quello di un corpo finalmente liberato, che comunica il proprio malessere
attraverso i suoi materiali e flussi fisiologici (sangue, sudore, sperma,
ecc…). In questo “linguaggio organico” si articolano tutta la rabbia,
l’aggressività, il dolore e la disperazione umani per la non-accettazione
della propria contingenza. Il corpo che sanguina, soffre, si espone in
tutta la sua fisiologicità (anche in quella più “bassa”, che certo non
corrisponde all’idea di “corpo” presentata dai media) è un corpo
che si ribella ai tabù socio-culturali sui quali si fonda una vera e propria
ossessione della carnalità.
Il movimento degli Azionisti Viennesi ha cercato di riappropriarsi del
corpo sottolineandone l’efficacia comunicativa attraverso la teatralizzazione
di cerimoniali pagani, simbologie della trasformazione, mescolanza di
corpi che dipingono e si lasciano dipingere, sfidano il perbenismo esibendo
le proprie nevrosi, fobie, psicosi, istinti repressi, sangue, escrementi.
L’arte, in questo movimento, è cruda e crudele, trasforma e deforma. Le
performance degli Azionisti Viennesi richiedono uno stomaco allenato:
il sado-masochismo, anche nelle sue forme più estreme (l’auto-castrazione
di Günter Brus ne è un esempio) è forma espressiva costante, strumento
di coinvolgimento emotivo del pubblico e dell’artista stesso.
Questa forma provocatoria di fare arte è piuttosto un invito all’esplorazione
totale del proprio corpo, dei suoi limiti, delle sue capacità psico-fisiche
di resistenza allo sforzo e al dolore. Ed è questo stesso modo di concepire
l’arte che ispira le performance di Chris Burden, che, nel 1971,
si chiude in un armadietto di ferro chiuso a chiave dall’esterno, rimanendovi,
digiuno (e bevendo solo acqua), per un periodo di cinque giorni.
Il corpo oltraggiato di Gina Pane, artista francese di origini
italiane, è un corpo funzionale alla contestazione di una società massificante,
società che costringe gli individui ad omologarsi a stereotipi classici.
Epicentro di questa sua arte contestativa, scevra di teatralità, è la
ferita, ferita sobria che, attraverso silenziosi rivoli di sangue, sussurra
l’estrema fragilità del corpo, il suo dolore, le aggressioni e le troppe
violenze a cui è sottoposto. Viviamo in una situazione di costante pericolosità,
dicono i tagli sul suo corpo, i suoi colpi decisi di lametta su un viso,
che in questo modo si sottrae ai canoni di bellezza standardizzati, di
matrice consumistica-maschilista. Provocarsi una ferita e lasciare che
il sangue ne denunci un dignitoso dolore è, per Gina Pane, aperta manifestazione
di dissenso rispetto agli schemi socio-culturali vigenti. Il suo corpo
oltraggiato è un corpo stimolato a destarsi dal torpore indotto da un
sistema culturale che gli nega ogni possibilità di autentica manifestazione
dei sentimenti. Aggressività, paure, sofferenze, curiosità e molto altro
non possono, nella nostra società, essere esplicitati apertamente. Il
senso di questo oltraggio è esattamente quello di restituire al corpo
assoluta capacità espressiva e sensibile, in opposizione alle tendenze
sociali desensibilizzanti.
Una risensibilizzazione corporea attraverso il dolore fisico viene ricercata
anche da Vito Acconci, che obbliga il proprio corpo alla percezione della
sua fisicità, per esempio producendo su di sé bruciature con mozziconi
di sigaretta.
A partire dagli anni '90, le performance incentrate sul corpo per
farne strumento di contestazione del sociale o per promuovere iniziative
legate all’idea di “corpo in fieri”, hanno contribuito sostanzialmente
al rinnovamento di una coscienza corporea, collettiva e individuale, e
della sensibilità estetica. Abituati a considerare anche l’arte quale
processo produttivo di oggetti, è interessante notare,
a questo proposito, come le performance interne alla body-art
si siano opposte alla logica produttiva imponendosi
come eventi artistici che non producono oggetti, ma sensazioni, inquietudini,
riflessioni.
L’ossessione del corpo, le nevrosi e le paure, ma anche i piaceri che
ne derivano vengono espresse dall’arte di Louise Bourgeois. Parti anatomiche
e membra umane emergono da blocchi di marmo grezzo. Dolore e piacere,
erotismo e paura, fondendosi, dominano ovunque nella sua arte, così come
il rosso. “Il rosso è il colore del sangue il rosso è il colore del dolore
il rosso è il colore della violenza il rosso è il colore della paura il
rosso è il colore del risentimento il rosso è il colore dell’ossessione
il rosso è il colore del rimprovero” scrive lei stessa. Nel 1992, l’artista
espone “Precious Liquids”, una casa-botte contenente ampolle, flaconi,
bicchierini, tutti contenenti i liquidi corporei: lacrime, saliva, vomito,
sperma, urina, sudore. Questi flussi organici vengono esposti/proposti
come espressione materiale delle diverse emozioni umane.
Il corpo si fa strumento e spazio di resistenza, in Franco B., nella lotta
contro la violenza sociale ai danni dell’individuo. Quest’ultimo viene
controllato, dal suo punto di vista, con l’arma della vergogna. Egli ritiene
che sarebbe un certo tipo di pudore, quello indotto dai costumi sociali,
a limitare le nostre capacità espressive. Attraverso il suo sangue, Franco
B. parla della violenza subita, delle ferite che la vita non gli ha risparmiato,
incide il suo corpo e lo riscrive tagliandolo. L’idea che guida il suo
percorso artistico è quella di liberarsi della vergogna, esponendo pubblicamente
la sua intimità: il suo corpo, le sue sofferenze, il dolore fisico, il
suo sangue. All’interno delle sue performance, l’artista si cosparge
del proprio sangue e lascia che il gruppo che con lui collabora lo sottoponga
a vere e proprie torture.
Sono molti gli artisti che denunciano una sorta di derealizzazione della
realtà, a volte ottenuta nascondendo gli aspetti cruenti del reale, più
spesso semplicemente non parlandone.
La realtà sotto ogni suo aspetto – la vita, la morte, la religione, il
sesso – e senza inibizioni, viene fotografata da Andres Serrano con un’attenzione
alle contraddizioni del reale. Il corpo che parla attraverso il suo obiettivo
fotografico lo fa con un linguaggio assolutamente diretto, ma senza mai
essere per questo brutale. Serrano propone una fotografia provocatoria
nei contenuti eppur rassicurante. Questo contrasto è ottenuto combinando
un contenuto dell’immagine forte (sado-masochismo, travestitismo, ermafrodismo,
mutilazioni, necrofilia, zoofilia, voyeurismo, ecc…) con la rassicurante
serenità e dolcezza dell’espressione impresse sui volti dei soggetti fotografati.
Filippo M. Caroti, dice della fotografia di Andres Serrano: “Tramite quei
volti arriva forte e chiaro il messaggio forse più importante di queste
fotografie: la trasgressione è spesso solamente uno stato mentale o sociale.
Chi non vive la morale comune come un limite invalicabile, ma come l'inizio
di una scoperta, trova nelle barriere abbattute la propria normalità,
il senso della propria ricerca e quindi in definitiva la propria libertà.
Non c'è vergogna su quei volti, non c'è pudore, non c'è pena, non c'è
autocommiserazione né ripensamento: c'è solo una grande dignità, quella
di vivere appieno, con amore e liberamente le proprie pulsioni sessuali
e le proprie trasgressioni, come elementi normali ed essenziali del vivere
stesso”.
Nel 1992, la fotografia di Andres Serrano si concentra sul corpo cadavere.
L’artista ottiene l’autorizzazione a scattare le sue foto in un obitorio
americano, ma solo su corpi che siano già stati sottoposti ad autopsia.
Le immagini (cibacromes di grande formato: 125,7 x 152,5 cm) riproducono
esclusivamente dettagli corporei, attraverso la cui fissità, immobilità,
silenzio, la morte si esprime come vuoto.
Ci sono artisti che giocano con le illusioni del reale, fra questi l’orientale
Araki Nobuyoshi. La sua arte fotografica intende denunciare il processo
di erotizzazione del tutto che investe la realtà attuale. Il corpo esprime
una sensualità che, ora più che mai, viene riscoperta in ogni cosa: nella
carnalità dei fiori, nella lucidità del metallo, nelle rotondità della
frutta, nelle pieghe di voluttuosi tessuti, ecc…
Erotos (1990) è il suo lavoro fotografico che gioca sulle
allusioni/illusioni, in cui le forme degli oggetti più disparati (carne,
metallo, muri, capelli, piante, ecc…) suggeriscono allo spettatore messaggi
erotici. L’artista gioca con lo spettatore, lo inganna, lo spinge ad esplorare
la sensualità dell’inorganico.
Nucleo centrale di questo silenzioso dibattito artistico svoltosi negli
ultimi quarant’anni è la crisi del concetto di identità unica, data (e
non scelta), definita una volta per tutte. Su questo punto gli esponenti
della body-art sono assolutamente concordi: il corpo deve piuttosto
definire un’identità multipla, variabile, gestibile dal soggetto secondo
la propria volontà, liberata dalla sottomissione alle leggi sociali e
naturali. Quello proposto nelle performance che attualmente catturano
maggiore attenzione è un corpo post-umano, cybercorpo: corpo in
costruzione, corpo che si ribella alla sua stessa datità e che si lascia
riprogettare dalla razionalità umana, tesa a sintetizzare una nuova corporeità,
più resistente e potenziata dall’utilizzo di valvole cardiache, lenti
oculari e nuovi materiali, plastici e metallici, concepiti per la sostituzione
delle parti corporee facilmente deperibili.
Il cybercorpo creato da questi performer inaugura la possibilità
di un nuovo sentire.
In quest’ottica, vengono inscenate le performance di artisti come
Orlan e Stelarc, accesi sostenitori dell’applicazione delle moderne tecnologie
al corpo. Attraverso i loro progetti, la contaminazione tecnologica viene
presentata come possibilità di superare l’obsolescenza e la “ridondanza”
corporea da entrambi lamentate.
Stelarc, performer australiano di origine greca, denuncia l’inattualità
del corpo, ormai incapace di reggere il confronto con le tecnologie, un
corpo persino ridondante, che, con l’aiuto della tecnologia, potrebbe
invece essere “ottimizzato”. Perché, si chiede Stelarc, non costruirsi
un corpo che ad esempio respiri attraverso i pori della pelle, senza il
bisogno di polmoni? Stelarc esplora il corpo, le sue potenzialità, i suoi
limiti. E in questa esplorazione si muove su due fronti: quello del potenziamento
cibernetico e quello degli “eventi di sospensione”, come lui stesso li
definisce. In realtà, benché questi ultimi somiglino molto, a prima vista
(il corpo viene sospeso tramite l’inserimento di uncini nella pelle),
a riti che appartenevano alle tradizionali cerimonie religiose degli Indiani
nord-americani (la “Sun Dance”), Stelarc ha più volte sottolineato
la totale laicità di intenti con la quale affronta tali performance
che altro non sono, per Stelarc, che espressione del primordiale desiderio
di volare. L’artista ritiene che l’era dell’informazione stia introducendo
l’uomo a un processo di “evoluzione post-darwiniana”: è l’opera di riprogettazione
umana a sostituirsi ai meccanismi biologici della selezione naturale.
Del resto è ormai generalmente riconosciuto che il corpo umano si sta
modificando per effetto delle innovazioni tecnologiche, in conseguenza
di quella che Franco Berardi definisce “artificializzazione della realtà". Lo sviluppo delle biotecnologie
determina una ridefinizione completa dei limiti biologici, la dissoluzione
di un’identità fissa, sostituita invece da una corporeità tecnomutativa.
Le nuove tecnologie multimediali, così come è avvenuto con l’avvento della
scrittura, stanno modificando i nostri sistemi mentali di comunicazione,
apprendimento, elaborazione, ossia trasformando il nostro brainframe.
E’ soprattutto la sfera psico-sensoriale che si sta adattando alle innovazioni
tecnologiche.
Se, fino agli anni '70, rispetto alla meccanizzazione della realtà umana
veniva espresso, generalmente, un timore diffuso, in questi ultimi decenni
se ne stanno rivalutando gli aspetti positivi, a partire dalle piccole-grandi
agevolazioni quotidiane.
La tecnologia è stata dunque ultimamente rivalutata, familiarizzata in
quanto prodotto umano che consente all’uomo di superare i propri limiti,
intesi come impedimenti fisici di un corpo sottomesso alle leggi naturali.
Ed è questa promessa tecnologica di superamento delle barriere biologiche
ad aver alimentato, negli ultimi decenni, una vera e propria rivolta creativa
contro l’obsolescenza del corpo umano.
Redesigning the body (riprogettare il corpo) è il perno attorno
a cui ruotano le performance di Stelarc. Lui stesso scrive in proposito:
“Non ha più senso considerare il corpo come un luogo della psiche o del
sociale, ma piuttosto come una struttura da controllare e da modificare.
Il corpo non come soggetto ma come oggetto, e non come oggetto di desiderio
ma come oggetto di riprogettazione. (…) Modificare l’architettura del
corpo significa adeguare ed estendere la sua consapevolezza del mondo.”
In una sua intervista, Stelarc ha detto: “Io non propongo un modello utopico
di corpo perfetto. Io non voglio che gli individui siano costretti a riprogettare
il proprio corpo, sto solo esplorando delle vie attraverso le quali chi
lo vuole possa farlo. E potrebbe volerlo fare perché il corpo è diventato
sempre più obsoleto nell’ambiente ad alta densità di informazione che
l’uomo stesso ha creato. Nessuno può sperare di assorbire e processare
in modo creativo tutta questa informazione. La tecnologia, con tutte queste
macchine che sono più precise e potenti del corpo, lo ha accelerato: il
corpo vive ormai in condizioni di gravità zero, o di velocità di fuga
da un pianeta. (…) E’ ora invece di adeguare il corpo alla macchina, di
dargli un’accelerata.”. Il corpo viene paragonato
ad una macchina d’epoca, assolutamente non competitiva con le attuali
possibilità tecnologiche, eppure ottimizzabile grazie alla loro applicazione.
Partendo da questa premessa, Stelarc è arrivato alla promozione di un
corpo post-organico, ossia corpo-macchina che sfida i rischi (leggi “limiti”)
connessi alla fisicità. Condannato dai suoi limiti biologici ad una precarietà
costante e superato dall’estrema rapidità tecnologica, obsoleto e biologicamente
inadatto ad affrontare la complessità di una realtà caratterizzata da
un’enorme quantità di informazioni, il corpo contemporaneo deve esplodere
«dal suo contenitore biologico, culturale e planetario» (Stelarc 1994).
Il desiderio espresso da Stelarc si sintetizza nella dissoluzione del
corpo, è aspirazione non a costruire una “nuova-carne”, bensì a negarla.
Il corpo ideale è corpo totalmente disincarnato, post-umano. Nel cybercorpo
verso il quale si orientano i progetti di ottimizzazione corporei l’egemonia
visuale sugli altri sensi si dissolve. A questo proposito, Derrik de Kerckhove parla di “remapping
sensoriale”, ossia di un processo di rivalutazione dei sensi sinora
poco sviluppati. Grazie alle nuove tecnologie è infatti possibile operare
un ribaltamento sensoriale, cosicché il tatto viene riscoperto e riconsiderato
per la sua possibilità di amplificazione sensitiva nella percezione del
reale. L’egemonia della vista sugli altri sensi, fondata dalla prospettiva
rinascimentale, ha penalizzato l’importanza del tatto, cosicché esperire
la realtà, fino all’avvento della cibernetica, significava soprattutto
percepire l’apparente.
Il progetto della “terza mano” ideato e realizzato da Stelarc intende
appunto promuovere una “ritattilizzazione” dell’esperienza umana. Questa
braccio biomeccanico è connesso al corpo di Stelarc e risponde ai suoi
comandi come fosse realmente suo.
Persino il significato dell’arte si trasforma, in Stelarc. Dal suo punto
di vista, infatti, il compito dell’artista è quello di ridefinire la forma
post-umana, forma di ibridazione fra organico e inorganico, che realizza
la possibilità di potenziare la capacità umana di sentire e di ridisegnare
la propria identità. Il corpo del trasformer, cybercorpo,
suscita dubbi e inquietudini, mette in discussione certezze secolari e
per questo costituisce una minaccia all’ordine costituito.
Antonin Artaud, Stelarc ed Orlan possono certamente essere considerati
fra i pionieri di questa demistificazione del corpo naturale, paladini
di un’irrisione blasfema della sacralità/intoccabilità del corpo dato
da Dio.
Il corpo del futuro, secondo questi artisti, è un corpo che si rimodella,
si rifonda e ridefinisce se stesso anche sul piano genetico.
Orlan e Stelarc si sbarazzano del tabù dell’originarietà/intangibilità/sacralità
del corpo naturale, ossia del mito del corpo così presente nelle tre grandi
religioni monoteiste. Gli interventi chirurgici, assolutamente invasivi,
progettati da Orlan sul suo corpo, vengono volutamente proposti al pubblico
“live”. Le immagini trasmesse via satellite sono assolutamente
crude, volutamente raccapriccianti, per dimostrare, ancora una volta,
come, nella società dell’immagine, lo spettatore rimanga passivo osservatore
di una “realtà” mediata, cosicché guarda tutto senza però vedere realmente,
perdendo così la propria capacità critico-analitica. Le immagini proposte
attraverso i mass-media, per quanto crude, brutali, terrificanti,
vengono “digerite” e cancellate dall’abitudine a vederle, punto di forza
dell’azione desensibilizzante operata dai media. Questi ultimi
hanno anestetizzato la nostra capacità partecipativa. Il vedere mediato,
attraverso i loro occhi, non produce più alcun sentire. Nella scelta di
Orlan di esporre il proprio corpo in divenire c’è, oltre al desiderio
di risvegliare nel pubblico la capacità partecipativa stimolata dall’interazione
artista/osservatore (Orlan viene anestetizzata solo localmente, per poter
dirigere attivamente l’intervento e parlare con i suoi spettatori)
anche la volontà di desacralizzare una sorta di rito di iniziazione/trasformazione
che la società ritiene debba invece svolgersi nell’ambito della riservatezza
e dell’intimità medico/paziente. Orlan definisce il suo corpo, durante
le performance, “solo un passivo pezzo di carne che giace sul tavolo”. La sua volontà, il suo
essere, invece, in quel momento sono tutt’altro che passivi ed è per questo
che rifiuta puntualmente l’anestesia. Orlan deve essere la creatrice,
non solo la creatura; colei che decide e non l’oggetto passivo delle decisioni
di un altro.
L’arte di Orlan è assolutamente radicale, non distingue confini fra il
personale e l’artistico. In Orlan l’esistenza umana e l’arte sono in perfetta
osmosi, l’una produce la plasmazione dell’altra e viceversa.
Né potrebbe essere diversamente, data la scelta di ricorrere alla performance,
che, di per sé, è già processo totalizzante, che annulla i confini fra
l’artista ed il pubblico, fra interno/esterno.
In tutte le performances si osserva una sorta di ossessione rispetto
alla carnalità (manifestata dall’uso di materiali e flussi organici),
una carnalità in sforzo e sofferente.
Ricorrendo all’esposizione della materia e dei flussi organici, l’esistenza
umana viene esposta allo sguardo attonito di un pubblico che, guardando,
prende coscienza di ciò che nel quotidiano si sforza invece di rimuovere.
La carne mutante non è solo terreno di confronto dell’uomo con la propria
terrificante organicità, ma anche occasione di riflessione sulla perdita
delle certezze, che implica, d’altra parte, anche una possibilità di scelta
e di azione sul corpo e sulla propria identità.
Il corpo diventa, in questo modo, strumento conoscitivo che apre uno spiraglio
sul rimosso e attiva coraggiose riflessioni sulle nostre inquietudini.
Come dice Teresa Macro, “Tra automutilazioni organiche e protesi innaturali,
la performance ha sempre cercato di mutare le possibilità fisiche
e coscienziali dell’essere.”
Performer come Orlan percorrono la loro “avventura mutante” consci del fatto che il
corpo non ha scelta, non può che adeguarsi alla tecnologia, accettare
che questa lo conduca nella direzione di un’identità
transgenetica, identità di sintesi fra uomo e macchina.
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