2. L’OCCIDENTE OMOLOGANTE E NARCOTIZZANTE

Quella in cui viviamo è la società dei contrasti: pacificata e violenta, dove esistono difficoltà a relazionarsi autenticamente con l'altro ma allo stesso tempo dove la professionalità di un servizio ben pagato impone, verso il cliente, cortesia, disponibilità, sollecitudine e una profusione di sorrisi e buone maniere assolutamente artificiose. Si diffonde, ovunque, una carica di aggressività crescente, testimoniata, in modo palese, da una cronaca nera particolarmente prolifica. Alla violenza di questa società in precario equilibrio siamo oramai quotidianamente addomesticati. Sono i mass-media a proporcela con la stessa disinvoltura con cui si affrontano argomenti di cucina o altro, fino a che, paradossalmente, ci hanno abituato a credere che tutto quel che vediamo attraverso uno schermo (che sia la morte in diretta, la violenza più estrema, fiumi di sangue e quant'altre atrocità non ha importanza), non rappresenti un pericolo, che sia fittizio, quasi un gioco, troppo vero per essere reale.
L’aumento del tasso di violenza metropolitana, universalmente registrato nelle società occidentali, è motivo di riflessione rispetto ad un malessere generalizzato che trova espressione  in forme di aggressività, aperta o latente, a seconda che essa venga esternata sotto forma di distruttività o depressione, ossia diretta contro la società o se stessi.
Rispetto al senso di impotenza che deriva all’uomo dalla impossibilità di opporsi alle dinamiche del tempo e della morte, purtroppo non si reagisce tentando di rientrare in una dimensione umana e tenendo a freno l’illusorio ottimismo scientifico. La reazione al senso di impotenza, anziché favorire un recupero di quella che Gabriel Marcel definisce “umiltà ontologica”, non fa che alimentare il nostro rancore per un corpo che non riusciamo più ad accettare che, di per sé, non riteniamo ci possa rappresentare.
La questione della incapacità del corpo di aggiornarsi, dei suoi ritmi evolutivi troppo lenti rispetto ad una produzione umana che invece si trasforma di continuo, produce quello che Gunther Anders, nel suo saggio sulla Antiquietheit des Menschen, chiamava «dislivello prometeico». L’adattabilità del corpo umano è, di per sé, molto limitata: le modifiche prodotte sulla morfologia umana dall’evoluzione naturale hanno richiesto millenni, ma ciononostante, il nostro corpo di oggi non si differenzia di molto da quello dei nostri antenati più lontani. Il supporto tecnologico viene sempre più considerato come ultima risorsa per un corpo che dimostra i limiti del “natum esse”.
La fede nella tecnologia ha ormai sostituito l’accettazione religiosa della condizione umana e indiscutibilmente modificato le nostre esistenze, le nostre aspirazioni, la percezione delle nostre possibilità e dei nostri limiti.
La fiducia crescente nelle soluzioni che la scienza e la tecnologia propongono, nel tentativo di superare i limiti biologici, sta alimentando un insano delirio di onnipotenza che, se da una parte costituisce una spinta propulsiva dei motori applicati alla ricerca, dall’altra, invece, crea un diffuso malessere, generato dalla persistenza dei limiti non ancora superati.
Totalmente fiduciosi nelle promesse di superamento tecnologico di ogni male (dalla vecchiaia alla malattia, dal dolore alla morte passando… per la cellulite), rivolgiamo le nostre piccole-grandi delusioni quotidiane - che nascono dal confronto-scontro con i nostri limiti biologici - sul corpo, da cui ci sentiamo traditi, ostacolati dalle sue debolezze in questa tensione verso l’onnipotenza. Gran parte del malessere di cui soffriamo deriva, dunque, dal senso di frustrazione di cui riteniamo il nostro corpo in qualche modo responsabile.
Pronti a spiccare il nostro volo di uomini liberati dalla scienza, si è frenati dall’incontro con l’obsolescenza di un corpo che non risponde adeguatamente agli adattamenti esterni, agli attacchi diretti dalla malattia al suo corretto funzionamento, incapace di ribellarsi al suo destino inesorabile: la morte, il disfacimento.
Jean Baudrillard[45], come altri autori, nota all’interno della quotidianità occidentale, un rigetto della morte, talmente forte, da intaccare  anche i rapporti con  gli estinti. Questi ultimi, infatti,  nel tempo, cessano di esistere  in quanto uomini, disumanizzati e relegati nei luoghi della memoria che vorremmo poter rimuovere, il cui affiorare obbliga a riflessioni profonde e dolorose sulle nostre paure.
Nelle culture d’interesse etnologico la morte e la vita sono in continuo e strettissimo  rapporto, vissuti come eventi naturali, quasi come l’avvicendarsi delle stagioni. In queste società, fra colui che muore ed i suoi familiari permane e  anzi si rafforza un legame di continuità e di simbiosi. Anche all’interno della nostra cultura,  fino all’avvento dell’età positivista, la morte veniva considerata, al pari della malattia, un evento del tutto naturale. Secondo lo spirito medioevale, e ancora quello barocco, la vita era considerata, fra l’altro,  periodo  preparatorio ad una buona morte (conseguenza, questa, di una buona vita). La società moderna, al contrario, esclude la morte dalla propria esperienza e tenta di rimuoverla ricorrendo alla produzione di oggetti, come per annullare il processo di morte tramite quello produttivo. Alla morte, respinta e mantenuta nell’inconscio, si è piuttosto sostituita una pulsione di morte che riaffiora, nell’esistenza quotidiana, come angoscia.
Nelle culture tradizionali quest’ultima viene superata con una simulazione, ossia rivivendo un’esperienza di “morte simbolica”, che trasforma il bambino in adulto e ne garantisce la veste sociale. In questa prospettiva, la morte è solo un punto di partenza. Ciò non avviene invece nella cultura occidentale, dove la morte, in ogni sua forma, simbolica o reale, viene rimossa, non accettata, considerata semplicemente “la fine”.
In una società controllata da logiche produttive, nella quale è il fare, a discapito dell’essere e del non-fare, l’unico valore accettabile, che regola l’esistenza e ne scandisce i ritmi quotidiani, si vivono esistenze riducibili ad un fare accelerato e costante, in nome del quale si perde la dimensione dell’interiorità, giungendo, paradossalmente, ad una svalutazione del tempo dedicato all’esplorazione dei nostri mondi interiori, alla percezione dei nostri reali bisogni e all’accettazione del sé.
Estranei agli altri e a noi stessi, abbiamo bisogno di ricontestualizzarci in un mondo in cui le relazioni, con l’Io e  gli altri, possano in qualche modo essere controllate e sicure. E’ di mediazioni e rapporti interpersonali mediati che si avverte il bisogno. “Siamo indotti a godere sempre di meno del mondo nella sua immediatezza sensibile, e sempre di più di segni che rappresentano il mondo, o meglio di mondi immaginari che costituiscono oggetto della nostra esperienza quotidiana. L’esperienza dell’artificiale sostituisce l’esperienza del concreto naturale, e l’artificiale tende a divenire la sola realtà con cui possiamo interagire.”[46]
A partire dagli anni '50, grazie all’influenza dei mass-media, è iniziato un processo di trasformazione nei rapporti fra reale e immaginario, finalizzato alla creazione di un quotidiano anestetizzato/anestetizzante, derealizzato. Ispirandoci ad un modello di realtà protetta, siamo giunti a costruire una realtà in cui il reale e l’immaginario si sovrappongono, al punto tale che, troppo spesso, l’uno e l’altro sono indistinguibili. Tale fenomeno è più conosciuto come “derealizzazione” della realtà, che definisce appunto questa nostra impossibilità di riconoscere limiti esattamente definiti fra il reale e l’immaginario, l’originale e il simulacro. La comunicazione pubblicitaria o mass-mediale, imitando i modi della comunicazione privata, si sostituiscono ad essa, generando una più rassicurante simulazione persino dei rapporti interpersonali. Rassicuranti, anche se assolutamente falsi, il sorriso onnipresente stampato sui volti che animano la pubblicità, la falsa intimità, la falsa complicità, la falsa tenerezza con i quali persino i biscotti vengono proposti come fatti e pensati solo per te.
La realtà derealizzata fornisce la possibilità di esperire le più svariate situazioni, essere se stessi o mille altri, muovere il proprio corpo nomade attraverso spazi virtuali, superando i limiti del tempo e le distanze, ma sempre con la rassicurante certezza che si tratta di un reale ludico, dove tutto è lecito grazie alla deresponsabilizzazione concessa dalla virtualità. Relazionarsi col mondo viene in questo modo facilitato poiché le relazioni virtuali consentono di interagire indirettamente. E’ esattamente questa mediazione negli incontri a caratterizzare i nuovi rapporti interpersonali.
In un momento come quello attuale, in cui ci si confronta con le nuove possibilità nomadiche di essere del corpo, con la sua ubiquità e la sua possibilità di essere uno e più allo stesso tempo, o di non essere quel che si è, se lo si vuole, si è sviluppata una ricerca irrequieta di fare sempre nuove esperienze, di adottare nuovi stili di vita e nuovi linguaggi. Le ampliate possibilità conoscitive ed esperienziali, da un lato stimolano l’uomo verso sempre nuove occasioni. D’altra parte, anche la logica del consumo spinge in questa direzione, lanciando inequivocabili messaggi di incitamento a non accontentarsi di quel che si possiede o che si è già esperito. In questo clima, anomalo è colui che si ferma, che si accontenta, che ascolta ed osserva gli altri e se stesso, colui che non afferra il momento, colui che non sente la necessità di provare di tutto e di più, che non conosce l’assillo del tempo che scorre sempre troppo in fretta o il timore di perdere una delle infinite possibilità di fare nuove esperienze, di provare nuove sensazioni. Del tutto nuovo, caratteristico della nostra società, è il senso generalizzato del dovere  di essere felici, dovere strumentalizzato dalla logica del consumo, logica che ha reso indipendente la produzione rispetto ai fabbisogni reali. In questo clima, in cui da ogni parte giungono inviti al consumo di beni materiali per ottenere un benessere fisico e, di riflesso, spirituale, l’attenzione del singolo viene proiettata, quasi esclusivamente, sulla cura del corpo. Al dovere di essere felici, di sperimentare continuamente cose nuove, di essere eternamente giovani, si aggiunge il dovere di difendere il corpo, con tutti i mezzi e a qualunque prezzo (anche in termini economici), dalla malattia e dalla morte, ma anche dalla distanza rispetto ai canoni estetici imperanti.
La logica del consumo, logica che articola la società occidentale, sta attuando meccanismi di omologazione a tutti i livelli. Tali meccanismi procedono a partire dall’invito dei mass-media, più o meno esplicito, a rifiutare, in noi e negli altri, le differenze sostanziali (l'appartenenza religiosa, ideologica, sociale, ecc.), personalità e creatività, per conformarsi a modelli predefiniti che differenziano da un punto di vista semplicemente formale.
In risposta alla mancanza di un’identità del tutto personale, che prescinda da modelli socio-culturali precostituiti, la società dell’immagine propone illusorie “differenziazioni personanalizzanti”, anch’esse standardizzate, che offrono, ancora una volta, solo la possibilità di emulazione di modelli sociali astratti e predefiniti. I meccanismi di questa differenziazione formale prevedono il ricorso ad oggetti/simboli che possono in qualche modo trasmettere, a noi stessi e agli altri, un’immagine di noi alla quale vorremmo corrispondere. L'attuale domanda del consumatore non è più un lavoro, una macchina o chissà che altro, quanto, piuttosto, una personalità. Come acutamente osservato da Beaudrillard[47], quel che si cerca, oggi, nel prodotto è la differenza che ci farà essere noi stessi.



[45] Beaudrillard J., op. cit..
[46] Berardi F., Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio., Costa & Nolan, Genova, 1994, p.30.
[47] Beaudrillard J., op. cit..