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Piercing e tatuaggi sono strumenti
di una comunicazione silenziosa, ma efficace. Essi rimandano a chi li
osserva dall’esterno una precisa percezione dell’immagine che l’altro
vuole presentare di sé. Cosicché, lo stesso corpo, con o senza un piccolissimo
tatuaggio, per esempio, viene percepito in modi molto diversi. Persino
la percezione del sé viene notevolmente influenzata dall’esistenza di
un tatuaggio o di un piercing o di una scarificazione sul proprio
corpo, perché essi rappresentano, nel nostro immaginario, quello che crediamo
di essere o ciò che vorremmo essere.
Tatuaggi e piercing risalgono certamente ad epoche preistoriche,
perché rispondono al bisogno primario di affermazione del sé, di uscita
dall’anonimato di un corpo indistinto, trasformandolo in corpo socialmente
e culturalmente determinato, ma anche personalizzato da elementi decorativi
la cui esclusività lo rende unico e riconoscibile.
L’opera di cristianizzazione dei missionari, e più in generale l’atteggiamento
di chiusura occidentale ad altri modi di fare umanità che, considerandoli
costumi “incivili”, ha contribuito ad innescare un processo di lento ma
inesorabile declino.
Il tatuaggio maori, costituisce un eccellente esempio di tatuaggio con
funzione identificativa. Presso i Maori, il tatuaggio facciale, detto
moko, oltre ad avere un effetto ornamentale, conferiva fierezza
al volto e svelava aspetti rilevanti della identità a cui esso apparteneva.
“Un uomo con il volto non tatuato veniva chiamato papatea o «faccia
liscia», che è come dire un tatua: un «povero nessuno».” Il moko nelle donne
prevedeva che solo le labbra ed il mento fossero tatuati. Labbra carnose
e blu venivano considerate caratteristiche ideali della bellezza muliebre.
La società maori era suddivisa in sei classi sociali e ad ogni livello
corrispondeva un tatuaggio distintivo. L’innalzamento di rango poteva
essere concesso, temporaneamente o permanentemente, ma anche questo doveva
essere indicato nel tatuaggio. Il moko descriveva, oltrechè l’appartenenza
sociale, anche l’occupazione svolta. Esso può essere letto dividendo il
volto a metà tramite una verticale immaginaria: sulla metà sinistra (Taha
Maui) viene descritta l’ascendenza paterna, sulla destra (Taha
Matua) quella materna. I segni che decorano le due metà sono di solito
(ma non sempre) simmetrici. La parte centrale della fronte è tatuata solo
tra gli appartenenti all’alta nobiltà o tra coloro che ottengono una promozione
per meriti speciali. La zona al di sopra delle sopracciglia, è solitamente
decorata da raggi che rappresentano la posizione sociale. Questa è proporzionale
all’altezza ed alla frequenza dei raggi e dei disegni fra un raggio e
l’altro. Le spirali sulla punta del naso caratterizzano le persone di
conoscenza, gli esperti, mentre una spirale doppia sul mento caratterizza
il maestro d’armi. Nella zona ai lati del naso è indicata la tribù di
appartenenza. Una spirale tatuata sulla parte alta delle guance indica
la primogenitura. Informazioni relative alla discendenza, materna o paterna,
sono situate nella zona degli zigomi, mentre ai lati della bocca trovano
spazio i segni identificativi del soggetto, quasi fossero un segno autografo.
Sulla parte centrale della guancia viene segnalato il mestiere, mentre
il rango è riportato ai lati del mento. I diritti ereditari, infine, sono
iscritti nella zona mandibolare e, nel caso di protezioni speciali, garantite
da parte di un capo tribù o di un re, queste vengono segnalate da appositi
tracciati nella zona ai lati delle labbra.
Nelle società preletterate, più che in quelle occidentali, il tatuaggio
o il piercing vengono associati ai rituali di iniziazione che strappando
l’individuo alla condizione infantile lo immettono nel mondo adulto. Anche
in Occidente, del resto, si sta imponendo con sempre maggior frequenza
l’abitudine di celebrare il raggiungimento della maggior età con un piercing
o un tatuaggio.
Nelle società preletterate, la condizione di indistinzione, sessuale e
sociale, che caratterizza l’infanzia vengono ammesse sino al momento in
cui la natura e la società impongono dei ruoli, sino a quando, cioè, fra
l’individuo, la natura e gli altri membri della società a cui appartiene,
che convivono in strettissimo contatto, non si impone la necessità di
ristabilire dei confini.
Laddove fra la madre ed il bambino si instaura una relazione viscerale,
per la formazione dell’individuo e per la sua integrazione sociale è assolutamente
necessario che questa esclusività del rapporto madre-figlio venga interrotta.
Al bambino si permette di giocare senza limiti, di rapportarsi alla madre
in un rapporto simbiotico, in virtù del quale per il bambino il corpo
della madre rappresenta una sorta di un prolungamento del suo stesso corpo.
Questa simbiosi fra la madre ed il bambino è talmente totalizzante da
non permettere uno scambio osmotico con il resto della comunità.
Il rito demiurgicamente risponde all’esigenza di porre fine al caos dell’infanzia,
di rifiutare l’indeterminatezza biologica, quella mistione di opposte
possibilità di essere, che, se pacificamente accettate nel bambino, non
possono tuttavia, per il bene della continuità sociale, convivere nell’adulto.
La cultura produce “tagli”, “incisioni”, “segni” rituali che eliminano
la condizione precedente e aiutano ad acquisire coscienza del sé,
o meglio delle aspettative sociali di cui il singolo viene investito.
Il tatuaggio, le scarificazioni, le perforazioni e le mutilazioni della
carne altro non sono che la concretizzazione del concetto di estirpazione
dell’indeterminatezza originaria.
La pelle, il corpo vengono culturalmente riscritti e trasformati anche
dall’agire umano e non più soltanto dall’azione dei processi naturali.
Il corpo dell’iniziato viene umanizzato, ossia culturalizzato (a vivo),
e personalizzato dall’intervento umano che lo segna o lo incide, intervento
che, tagliando, riplasma.
Queste pratiche corporee, agiscono sul piano simbolico ma si traducono
su quello reale, producendo una effettiva assimilazione del proprio ruolo
sociale, della propria appartenenza al gruppo e al genere, ben più profonda
delle incisioni epidermiche. Sempre sul piano simbolico, la pratica di
modificazione corporea riproduce un rinnovamento identitario, oltre a
segnalare, a se stessi e al gruppo, l’avvenuta integrazione dell’individuo
nella società.
Il rito iniziatico potrebbe essere assimilato ad una seconda (simbolica)
recisione del cordone ombelicale, attraverso la quale si produce e celebra
la morte (anch’essa simbolica) dell’infanzia e l’introduzione nel mondo
adulto, intesa come rinascita sotto il segno di una nuova identità.
La metamorfosi identitaria prodotta attraverso il rito iniziatico non
può che essere traumatizzante, dolorosa, sia sul piano della fisicità
che su quello della coscienza. Essa, coinvolgendo più piani contemporaneamente,
non può essere dimenticata, cosicché deve rimane indelebilmente iscritta
sul corpo. Il dolore di crescere è dolore universale, che lacera nel profondo
e trasforma. L’immagine della crisalide sintetizza in modo molto efficace
questa mutazione.
L’acquisizione di una nuova identità viene sancita dal rito, anche attraverso
l’imposizione di un nuovo nome. Il tatuaggio, e più in generale gli interventi
di “scrittura corporea” presso le società preletterate, svolgono, pertanto,
più che una semplice funzione decorativa, funzioni di introduzione e compimento
all’interno di percorsi acculturativi. Laddove la pittura corporea, per
il suo carattere provvisorio, viene realizzata in contesti di trasgressione
rituale, per richiamare l’attenzione sui divieti culturali e risvegliare
la coscienza dell’impuro, tatuaggi, scarificazioni e tutte le pratiche
di modificazione corporea permanenti costituiscono il momento di iscrizione
simbolica sul corpo del sociale e del culturale. La
funzione delle modificazioni corporee permanenti è prettamente iniziatica,
in quanto sottrae l’individuo alla condizione di indeterminatezza con
cui si nasce, imprimendo sul suo corpo il simbolo personalizzante dell’abbandono
definitivo della condizione infantile, di una trasformazione
profonda, dolorosa ma altrettanto necessaria, della propria identità,
ossia dell’avvenuta maturazione dell’individuo ormai adulto. Queste pratiche
di “scrittura corporea” possono essere non a torto definite “pratiche
di coniazione socio-culturale”, perché appunto imprimono,
irrevocabilmente, il segno dell’avvenuta umanizzazione.
Il tatuaggio viene praticato, nelle società tradizionali, non solo all’interno
di riti iniziatici, e dunque anche con finalità molto diverse: può essere
segno di devozione religiosa, segno di appartenenza ad un gruppo, indicativo
dello status sociale, celebrativo di imprese eroiche, segno espressivo
della propria personalità, delle proprie vocazioni o ancora espressione
visiva di ciò che non si può dimenticare.
Fercioni Gnecchi L., “Tatuaggi.
La scrittura del corpo”., Milano, Mursia,
1994, p.57.
Bonito Oliva A. et al., L’asino e la zebra. Origini e tendenze
del tatuaggio contemporaneo., Roma, De Luca, 1985, p.17.
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