Il fare umanità è un processo universale, messo in atto presso ogni
società umana, a cui nessun uomo può sottrarsi. Arnold Van Gennep sostiene persino che ogni
società non può fare a meno di operare al suo interno delle divisioni,
distinguendo i propri membri e raggruppandoli per fasce d’età, sesso,
classe, ecc. Come ha correttamente osservato Bruno Bettelheim, la classificazione degli
individui è essenziale a creare fra loro la coesione necessaria alla
continuità sociale. L’azione della cultura modella la conoscenza dei
membri di una società, indicando i comportamenti, il modo di relazionarsi
a se stessi e agli altri, il modo di leggere ed interpretare la realtà,
di sentire e di esternare le proprie emozioni. L’intervento della
cultura viene attuato attraverso processi di apprendimento delle
regole e dei valori di base. L’apprendimento di determinati valori e
regole non è casuale: i momenti di trasformazione biologica si accompagnano,
sistematicamente, a quelli di trasformazione culurale-spirituale-coscienziale.
Poiché ogni processo di
trasformazione comporta necessariamente uno stravolgimento dell’ordine
costituito, le tappe fondamentali di questi processi che, sinergicamente,
contribuiscono alla costruzione identitaria dell’individuo, costituiscono
momenti particolarmente delicati, sia per l’individuo stesso che per
la società.
Per difendersi dalla potenziale pericolosità connessa alla destabilizzazione
operata dai grandi cambiamenti, alcune culture hanno
messo a punto dei rituali, che, in quanto predefiniti, eseguiti all’interno
di “spazi” e in “tempi” protetti, garantiscono il
successo delle trasformazioni in corso, dissolvono il timore di perdere
la forma di umanità raggiunta e, allo stesso tempo, assolvono alla difesa
dell’ordine costituito. Partendo dalla premessa che nelle società preletterate
il mondo sacro sconfina in quello profano e lo ingloba quasi totalmente,
Van Gennep dice: “Ogni mutamento di situazione dell'individuo viene
a comportare dunque delle azioni e delle reazioni tra il profano e il
sacro; queste azioni e reazioni devono essere appunto regolamentate
e controllate, affinchè la società generale non subisca né disagi, né
danni. (...) nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, progressione
di classe, specializzazione di occupazione, morte. A ciascuno di questi
insiemi corrispondono cerimonie il cui fine è identico: far passare
l'individuo da una situazione determinata a un’altra anch'essa determinata.” Questi passaggi dal profano
al sacro implicano “(...) un turbamento della vita sociale e individuale,
ed è proprio ad attenuare gli effetti fastidiosi che è destinato un
certo numero di riti di passaggio.”
In realtà, per “passaggio” si intende non una semplice “transizione”,
bensì una profonda, persino sostanziale, mutazione identitaria, agita
da una cultura plasmante.
Van Gennep essenzialmente distingue tre fasi del rito: preliminare (separazione),
liminare (margine), post-liminare (aggregazione). I riti di separazione
sono in genere caratterizzati da un cut off, ossia dall’azione
del tagliare, che è azione simbolica del taglio con il passato. Tagliare,
come sottolinea giustamente Van Gennep, equivale ad operare una
differenziazione definitiva, irrevocabile.
Il senso dei rituali di iniziazione in contesti preletterati, in realtà,
è quello di permettere un passaggio dal mondo asessuato dell’infanzia
a quello sessuale degli adulti, attraverso un percorso “guidato” e dunque,
seppure doloroso, sicuro. La condizione temporanea dell’infanzia deve
essere dunque definitivamente recisa per poter accedere alla condizione,
permanente, di adulto socialmente integrato. E’ per questo che il taglio
simbolico con il passato, nei rituali d’iniziazione si traduce in tagli
o incisioni corporee.
Nelle società preletterate si diventa membri di un gruppo seguendo
tappe obbligate, mentre nelle società occidentali i percorsi formativi
che rendono un individuo membro integrato di una società non sono sempre
così chiari e predefiniti, cosicché si diventa adulti assimilando modelli
culturali appresi attraverso l’osservazione del quotidiano: la famiglia,
la scuola, i mezzi di comunicazione di massa costituiscono, in Occidente,
le fonti principali di plasmazione culturale. Crescere diventa allora
piuttosto una scelta, più o meno consapevole, del modello umano da “emulare”
ed al quale, quasi improvvisando, conformarsi.
Le società che affrontano collettivamente la questione dell’identità
culturale del singolo, attraverso il rito iniziatico, garantiscono a
se stesse una effettiva coesione sociale. Nel corso di un rituale iniziatico,
infatti, dalla condivisione di un sapere tradizionale e del dolore (fisico
ma anche spirituale, per la morte della propria infanzia), si sviluppa
un profondo senso di appartenenza al
gruppo (a quello, particolare, degli iniziati e a quello, più
generale, della cultura a cui si appartiene).
Il rito ripropone tutto il dolore, la sofferenza e la fatica, che necessariamente
accompagnano una metamorfosi identitaria. Esso, inoltre, impone l’abbandono
definitivo dell’identità originaria, semplicemente biologica, e la sostituzione
ad esso di una identità adulta.
Se da una parte la nuova condizione, ossia la nuova forma di umanità,
viene “incorporata”, dall’altra, la forma di umanità precedente
deve invece, obbligatoriamente, essere “strappata”.
Non è ammissibile, all’interno delle culture preletterate, che, tramite
il rito, l’individuo possa accumulare forme di umanità non-complementari
(per es. l’essere immaturo e l’essere adulto). “ (…) il senso della
distruzione è molto accentuato nei rituali di iniziazione, a tal punto
da concepire questa stessa distruzione come una “morte” dell’individuo
precedente. (…) Sofferenza, distruzione, morte sono ingredienti indispensabili
dei rituali che si prefiggono la costruzione sociale di un essere umano.”
Pietro Prini, a riguardo, ha proposto una equivalenza fra battesimo
e rito iniziatico (incentrato sulla circoncisione), che l’autore interpreta
come “pegni della nuova nascita”.
Nel rito di iniziazione si produce la morte della condizione infantile,
caratterizzata dall’assenza del senso di appartenenza al gruppo sociale
e dall’indeterminazione di genere (ci si sente appartenenti al solo
gruppo familiare e si vive una sorta di condizione androginica).
Nella realtà attuale, dominata dalla comunicazione multimediale, da
culture ibride e transculturali, le categorie che determinavano le classi
di età o i passaggi generazionali si sono ormai dissolte, cosicché si
assiste ad una dilatazione del concetto di giovane: ognuno può percepire
la propria giovinezza come condizione temporaneamente illimitata. Come
giustamente osservato da Massimo Canevacci, “Il passaggio dalla gioventù
al mondo degli adulti è diventato qualcosa di indeciso, una sorta di
zona grigia e lenta che si può attraversare o dilazionare da parte del
soggetto. Le spinte a questa dilatazione giovanile sono molteplici.
Come il sé: il multiple self. (…) Non si è più giovani in modo
oggettivo o collettivo, bensì transitivo. Si transita lungo una condizione
variabile e indeterminabile, la si attraversa secondo modalità determinate
dalle momentanee individualità del soggetto-giovane. Dalle contrattazioni
tra i suoi vari, eterogenei, multipli sé (selves).” Nelle società occidentali
contemporanee, il passaggio dalla condizione giovanile a quella adulta
viene dunque segnato dall’entrata nel mondo del lavoro. La condizione
giovanile, dagli anni '50 in poi, viene vissuta come periodo intermedio
fra l’infanzia e la maturità, laddove invece, prima di allora, l’entrata
nel mondo del lavoro da adolescenti (se non prima) segnava una trasformazione
immediata in adulti, precludendo la possibilità di essere giovani, teen-ager,
come si dice oggi. Il teen-ager, al contrario, inserito nel mondo
scolastico, si inserisce nel mondo adulto entrando nel mondo del lavoro.
“Il lavoro è una sorta di rito di passaggio che separa dolorosamente
il giovane dall’adulto. (…) Il lavoro come lavoro salariato si presenta
da subito come una cesura netta dalla quale non si ritorna indietro.
E’ un passaggio unidirezionale e irreversibile. Esso assume la forma
unta e deprimente del posto fisso (nello Stato, nei comuni, nel pubblico
ecc. – una sorta di ergastolo col permesso di fuga giornaliero) o del
lavoro in fabbrica sfruttato, alienato ma vivo, da cui tentare in tutti
i modi di liberarsi.” Uno dei fattori che hanno
comportato la dilatazione della condizione giovanile è senza dubbio
la liberazione dal lavoro ripetitivo, alienato e fisso e la diffusione
di un lavoro altro, più creativo e spesso temporaneo. Questo lavoro
altro, dunque, più che costituire un rito di passaggio irreversibile
dall’adolescenza alla condizione adulta, risulta essere un rito di passaggio
dall’una all’altra condizione, alternabili, esteso nel tempo e persino
pluralizzabile.
Mediante il rito di iniziazione, l’iniziando entra in possesso delle
tradizioni della sua cultura, abbandona definitivamente il mondo dell’infanzia
per entrare a far parte del mondo degli adulti, mondo in cui è investito
di un ruolo e di finalità ben determinati. Il rito, inoltre, riconosce
all’iniziato una raggiunta maturità sessuale, riconoscimento, questo,
di estrema importanza soprattutto per gli uomini. Secondo David Gilmore, infatti, il bisogno di
costruirsi una identità culturale è più forte nei maschi, perché, mentre
lo status di donna si sviluppa naturalmente ed è oltretutto visibile,
concreto (il flusso mestruale, la gravidanza, il parto, l’allattamento),
per i maschi, invece, è la cultura a dover stimolare in loro i caratteri
di uomini adulti, che altrimenti rimarrebbero latenti. In molte società,
la condizione maschile non viene conquistata e garantita una volta per
tutte attraverso il rito iniziatico, ma viene vissuta come incerta e
continuamente a rischio. In queste società, gli uomini manifestano una
vera e propria ossessione per la propria virilità, che sentono di dover
dimostrare e difendere costantemente. In molti casi, vengono
messe in atto, a sostituzione di rituali predefiniti, pratiche di potenziamento
della virilità in cui i genitali maschili, talvolta incisi, vengono
“rivitalizzati” dalla potenza del sangue che ne fuoriesce.
Il sangue proveniente dai genitali, maschili o femminili, è comunque
investito di un potere molto efficace sulla vita. Presso alcune popolazioni
africane, per esempio, si ritiene che il sangue mestruale (e quindi
di donna) possa guarire un malato grave, così come, invece, il sangue
che proviene da una subincisione o da una circoncisione (quindi sangue
d’uomo) possa guarire una donna. Bruno Bettelheim ha suggerito l’ipotesi
che il bisogno maschile di rituali iniziatici caratterizzati da pratiche
che prevedano l’incisione e il conseguente sanguinamento dei genitali
maschili, possano rivelare una malcelata invidia maschile per il potere
femminile (di generare) che si ritiene connesso al flusso mestruale.
All’invidia si somma, inoltre, il timore della enorme potenza del potere
femminile (potere di dare e quindi, eventualmente, anche di togliere
la vita). A partire da questi ipotesi, dunque, Bruno Bettelheim suggerisce
l’interpretazione dei rituali iniziatici maschili più cruenti come tentativo
di appropriazione, mediante il rituale, dello stesso potere, generante
e distruttivo, femminile. D’altra parte, ad una conclusione molto simile
perviene Barbara Glowczewski, che ritiene, in riferimento
alla subincisione rituale praticata dai giovani Warlpiri australiani,
che possa essere interpretata come tentativo ritualizzato di recupero
della parte di femminilità estirpata dal rito di iniziazione, in altri
termini come una sorta di “femminilizzazione della genitalità maschile”.
Generalizzando, la violenza, talvolta estrema, posta in atto in un contesto
rituale iniziatico, a detta di Bruno Bettelheim, ha una funzione rivitalizzante
di cui beneficiano gli organi o i tessuti che vengono brutalmente “sacrificati”.
Comune denominatore dei processi rituali che determinano l’umanizzazione,
all’interno di contesti occidentali e non, sembra essere la necessità
di coinvolgere il corpo in questo processo di raggiungimento della condizione
adulta. Il corpo non potrebbe, del resto, sfuggire a questo coinvolgimento
poiché la metamorfosi identitaria si innesta su una struttura fisica
che ha già subìto o sta attraversando una metamorfosi anatomica. Il
dolore, sempre presente in questi processi, ha una funzione:
-
rappresenta, sul piano simbolico-rituale,
quello che è il dolore spirituale della crescita;
-
permette, attraverso il suo superamento,
di dimostrare, a se stessi ed alla comunità, di aver ormai acquisito
la capacità di sopportazione, il coraggio e la maturità che permettono
l’accesso al mondo degli adulti;
-
la prova del dolore, infine, è elemento
ricorrente, pressoché universale, nei patti di alleanza, laddove colui
che si sacrifica intende in questo modo dimostrare la fedeltà assoluta
alle regole del gruppo che sta per integrarlo.