1.3 LA RITUALITA’ COME PROCESSO CULTURALE


Il fare umanità è un processo universale, messo in atto presso ogni società umana, a cui nessun uomo può sottrarsi. Arnold Van Gennep[29] sostiene persino che ogni società non può fare a meno di operare al suo interno delle divisioni, distinguendo i propri membri e raggruppandoli per fasce d’età, sesso, classe, ecc. Come ha correttamente osservato Bruno Bettelheim[30], la classificazione degli individui è essenziale a creare fra loro la coesione necessaria alla continuità sociale. L’azione della cultura modella la conoscenza dei membri di una società, indicando i comportamenti, il modo di relazionarsi a se stessi e agli altri, il modo di leggere ed interpretare la realtà, di sentire e di esternare le proprie emozioni. L’intervento della  cultura viene attuato attraverso processi di apprendimento delle regole e dei valori di base. L’apprendimento di determinati valori e regole non è casuale: i momenti di trasformazione biologica si accompagnano, sistematicamente, a quelli di trasformazione culurale-spirituale-coscienziale.
Poiché ogni processo di trasformazione comporta necessariamente uno stravolgimento dell’ordine costituito, le tappe fondamentali di questi processi che, sinergicamente, contribuiscono alla costruzione identitaria dell’individuo, costituiscono momenti particolarmente delicati, sia per l’individuo stesso che per la società.
Per difendersi dalla potenziale pericolosità connessa alla destabilizzazione operata dai  grandi cambiamenti, alcune culture hanno messo a punto dei rituali, che, in quanto predefiniti, eseguiti all’interno di “spazi” e in “tempi” protetti, garantiscono  il successo delle trasformazioni in corso, dissolvono il timore di perdere la forma di umanità raggiunta e, allo stesso tempo, assolvono alla difesa dell’ordine costituito. Partendo dalla premessa che nelle società preletterate il mondo sacro sconfina in quello profano e lo ingloba quasi totalmente, Van Gennep dice: “Ogni mutamento di situazione dell'individuo viene a comportare dunque delle azioni e delle reazioni tra il profano e il sacro; queste azioni e reazioni devono essere appunto regolamentate e controllate, affinchè la società generale non subisca né disagi, né danni. (...) nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, progressione di classe, specializzazione di occupazione, morte. A ciascuno di questi insiemi corrispondono cerimonie il cui fine è identico: far passare l'individuo da una situazione determinata a un’altra anch'essa determinata.”[31] Questi passaggi dal profano al sacro implicano “(...) un turbamento della vita sociale e individuale, ed è proprio ad attenuare gli effetti fastidiosi che è destinato un certo numero di riti di passaggio.”[32]
In realtà, per “passaggio” si intende non una semplice “transizione”, bensì una profonda, persino sostanziale, mutazione identitaria, agita da una cultura plasmante.
Van Gennep essenzialmente distingue tre fasi del rito: preliminare (separazione), liminare (margine), post-liminare (aggregazione).[33] I riti di separazione sono in genere caratterizzati da un cut off, ossia dall’azione del tagliare, che è azione simbolica del taglio con il passato. Tagliare, come sottolinea giustamente Van Gennep[34], equivale ad operare una differenziazione definitiva, irrevocabile.
Il senso dei rituali di iniziazione in contesti preletterati, in realtà, è quello di permettere un passaggio dal mondo asessuato dell’infanzia a quello sessuale degli adulti, attraverso un percorso “guidato” e dunque, seppure doloroso, sicuro. La condizione temporanea dell’infanzia deve essere dunque definitivamente recisa per poter accedere alla condizione, permanente, di adulto socialmente integrato. E’ per questo che il taglio simbolico con il passato, nei rituali d’iniziazione si traduce in tagli o incisioni corporee. 
Nelle società preletterate si diventa membri di un gruppo seguendo tappe obbligate, mentre nelle società occidentali i percorsi formativi che rendono un individuo membro integrato di una società non sono sempre così chiari e predefiniti, cosicché si diventa adulti assimilando modelli culturali appresi attraverso l’osservazione del quotidiano: la famiglia, la scuola, i mezzi di comunicazione di massa costituiscono, in Occidente, le fonti principali di plasmazione culturale. Crescere diventa allora piuttosto una scelta, più o meno consapevole, del modello umano da “emulare” ed al quale, quasi improvvisando, conformarsi.
Le società che affrontano collettivamente la questione dell’identità culturale del singolo, attraverso il rito iniziatico, garantiscono a se stesse una effettiva coesione sociale. Nel corso di un rituale iniziatico, infatti, dalla condivisione di un sapere tradizionale e del dolore (fisico ma anche spirituale, per la morte della propria infanzia), si sviluppa un profondo senso di appartenenza  al  gruppo (a quello, particolare, degli iniziati e a quello, più generale, della cultura a cui si appartiene).
Il rito ripropone tutto il dolore, la sofferenza e la fatica, che necessariamente accompagnano una metamorfosi identitaria. Esso, inoltre, impone l’abbandono definitivo dell’identità originaria, semplicemente biologica, e la sostituzione ad esso di una identità adulta.
Se da una parte la nuova condizione, ossia la nuova forma di umanità, viene “incorporata”, dall’altra, la forma di umanità precedente deve invece, obbligatoriamente, essere  “strappata”. Non è ammissibile, all’interno delle culture preletterate, che, tramite il rito, l’individuo possa accumulare forme di umanità non-complementari (per es. l’essere immaturo e l’essere adulto). “ (…) il senso della distruzione è molto accentuato nei rituali di iniziazione, a tal punto da concepire questa stessa distruzione come una “morte” dell’individuo precedente. (…) Sofferenza, distruzione, morte sono ingredienti indispensabili dei rituali che si prefiggono la costruzione sociale di un essere umano.”[35] 
Pietro Prini, a riguardo, ha proposto una equivalenza fra battesimo e rito iniziatico (incentrato sulla circoncisione), che l’autore interpreta come “pegni della nuova nascita”.[36]
Nel rito di iniziazione si produce la morte della condizione infantile, caratterizzata dall’assenza del senso di appartenenza al gruppo sociale e dall’indeterminazione di genere (ci si sente appartenenti al solo gruppo familiare e si vive una sorta di condizione androginica).
Nella realtà attuale, dominata dalla comunicazione multimediale, da culture ibride e transculturali, le categorie che determinavano le classi di età o i passaggi generazionali si sono ormai dissolte, cosicché si assiste ad una dilatazione del concetto di giovane: ognuno può percepire la propria giovinezza come condizione temporaneamente illimitata. Come giustamente osservato da Massimo Canevacci, “Il passaggio dalla gioventù al mondo degli adulti è diventato qualcosa di indeciso, una sorta di zona grigia e lenta che si può attraversare o dilazionare da parte del soggetto. Le spinte a questa dilatazione giovanile sono molteplici. Come il sé: il multiple self. (…) Non si è più giovani in modo oggettivo o collettivo, bensì transitivo. Si transita lungo una condizione variabile e indeterminabile, la si attraversa secondo modalità determinate dalle momentanee individualità del soggetto-giovane. Dalle contrattazioni tra i suoi vari, eterogenei, multipli sé (selves).”[37] Nelle società occidentali contemporanee, il passaggio dalla condizione giovanile a quella adulta viene dunque segnato dall’entrata nel mondo del lavoro. La condizione giovanile, dagli anni '50 in poi, viene vissuta come periodo intermedio fra l’infanzia e la maturità, laddove invece, prima di allora, l’entrata nel mondo del lavoro da adolescenti (se non prima) segnava una trasformazione immediata in adulti, precludendo la possibilità di essere giovani, teen-ager, come si dice oggi. Il teen-ager, al contrario, inserito nel mondo scolastico, si inserisce nel mondo adulto entrando nel mondo del lavoro. “Il lavoro è una sorta di rito di passaggio che separa dolorosamente il giovane dall’adulto. (…) Il lavoro come lavoro salariato si presenta da subito come una cesura netta dalla quale non si ritorna indietro. E’ un passaggio unidirezionale e irreversibile. Esso assume la forma unta e deprimente del posto fisso (nello Stato, nei comuni, nel pubblico ecc. – una sorta di ergastolo col permesso di fuga giornaliero) o del lavoro in fabbrica sfruttato, alienato ma vivo, da cui tentare in tutti i modi di liberarsi.”[38] Uno dei fattori che hanno comportato la dilatazione della condizione giovanile è senza dubbio la liberazione dal lavoro ripetitivo, alienato e fisso e la diffusione di un lavoro altro, più creativo e spesso temporaneo. Questo lavoro altro, dunque, più che costituire un rito di passaggio irreversibile dall’adolescenza alla condizione adulta, risulta essere un rito di passaggio dall’una all’altra condizione, alternabili, esteso nel tempo e persino pluralizzabile.[39]
Mediante il rito di iniziazione, l’iniziando entra in possesso delle tradizioni della sua cultura, abbandona definitivamente il mondo dell’infanzia per entrare a far parte del mondo degli adulti, mondo in cui è investito di un ruolo e di finalità ben determinati. Il rito, inoltre, riconosce all’iniziato una raggiunta maturità sessuale, riconoscimento, questo, di estrema importanza soprattutto per gli uomini. Secondo David Gilmore[40], infatti, il bisogno di costruirsi una identità culturale è più forte nei maschi, perché, mentre lo status di donna si sviluppa naturalmente ed è oltretutto visibile, concreto (il flusso mestruale, la gravidanza, il parto, l’allattamento), per i maschi, invece, è la cultura a dover stimolare in loro i caratteri di uomini adulti, che altrimenti rimarrebbero latenti. In molte società, la condizione maschile non viene conquistata e garantita una volta per tutte attraverso il rito iniziatico, ma viene vissuta come incerta e continuamente a rischio. In queste società, gli uomini manifestano una vera e propria ossessione per la propria virilità, che sentono di dover  dimostrare e difendere costantemente. In molti casi, vengono messe in atto, a sostituzione di rituali predefiniti, pratiche di potenziamento della virilità in cui i genitali maschili, talvolta incisi, vengono “rivitalizzati” dalla potenza  del sangue che ne fuoriesce. Il sangue proveniente dai genitali, maschili o femminili, è comunque investito di un potere molto efficace sulla vita. Presso alcune popolazioni africane, per esempio, si ritiene che il sangue mestruale (e quindi di donna) possa guarire un malato grave, così come, invece, il sangue che proviene da una subincisione o da una circoncisione (quindi sangue d’uomo) possa guarire una donna. Bruno Bettelheim[41] ha suggerito l’ipotesi che il bisogno maschile di rituali iniziatici caratterizzati da pratiche che prevedano l’incisione e il conseguente sanguinamento dei genitali maschili, possano rivelare una malcelata invidia maschile per il potere femminile (di generare) che si ritiene connesso al flusso mestruale. All’invidia si somma, inoltre, il timore della enorme potenza del potere femminile (potere di dare e quindi, eventualmente, anche di togliere la vita). A partire da questi ipotesi, dunque, Bruno Bettelheim suggerisce l’interpretazione dei rituali iniziatici maschili più cruenti come tentativo di appropriazione, mediante il rituale, dello stesso potere, generante e distruttivo, femminile. D’altra parte, ad una conclusione molto simile perviene Barbara Glowczewski[42], che ritiene, in riferimento alla subincisione rituale praticata dai giovani Warlpiri australiani, che possa essere interpretata come tentativo ritualizzato di recupero della parte di femminilità estirpata dal rito di iniziazione, in altri termini come una sorta di “femminilizzazione della genitalità maschile”.
Generalizzando, la violenza, talvolta estrema, posta in atto in un contesto rituale iniziatico, a detta di Bruno Bettelheim, ha una funzione rivitalizzante di cui beneficiano gli organi o i tessuti che vengono brutalmente “sacrificati”.
Comune denominatore dei processi rituali che determinano l’umanizzazione, all’interno di contesti occidentali e non, sembra essere la necessità di coinvolgere il corpo in questo processo di raggiungimento della condizione adulta. Il corpo non potrebbe, del resto, sfuggire a questo coinvolgimento poiché la metamorfosi identitaria si innesta su una struttura fisica che ha già subìto o sta attraversando una metamorfosi anatomica. Il dolore, sempre presente in questi processi, ha una  funzione:

-         rappresenta, sul piano simbolico-rituale, quello che è il dolore spirituale della crescita;

-         permette, attraverso il suo superamento, di dimostrare, a se stessi ed alla comunità, di aver ormai acquisito la capacità di sopportazione, il coraggio e la maturità che permettono l’accesso al mondo degli adulti;

-         la prova del dolore, infine, è elemento ricorrente, pressoché universale, nei patti di alleanza, laddove colui che si sacrifica intende in questo modo dimostrare la fedeltà assoluta alle regole del gruppo che sta per integrarlo.  

 

[29] Van Gennep A., I riti di passaggio, Torino, Boringhieri, 1981, (1909).
[30] Bettelheim B., Ferite simboliche, R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano, 1996 (1962), p.11.
[31] Van Gennep A.,op. cit., pp.4-5.
[32] Van Gennep A., op. cit., pp.12-13.
[33] Van Gennep A., op. cit., p.11.
[34] Van Gennep A,op. cit., p.64.
[35] Remotti F., op. cit., p.163.
[36] Prini Pietro, Il corpo che siamo. Introduzione all’antropologia etica., Stabilimento Grafico SEI, Torino, 1991, p.127.
[37] Canevacci M., op. cit., pp.30-31.
[38] Canevacci M., op. cit., p.23.
[39] Canevacci M., op. cit., p.31.
[40] Gilmore D., La genesi del maschile. Modelli culturali della virilità., Firenze, La Nuova Italia, 1993.
[41] Bettelheim B., op. cit.
[42] Glozczewski B., Du rêve à la loi chez les Aborigènes. Mythes, rites et organisation sociale en Australie., Paris, Presses Universitaires de France, 1991