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La questione della percezione del corpo ha da sempre suscitato, oltrechè
grandissimo interesse, accesi dibattiti filosofici e morali. Nel
tentativo di appianare il conflitto di sempre, quello che, alternativamente,
ha preposto il corpo allo spirito o viceversa, ci si è appellati al concetto
di “corpo psichico”, concetto che sintetizza, in modo perfettamente bilanciato,
l’unità di corpo/anima. L’idea di “corpo-psichico” si basa sul principio
secondo il quale ognuno di noi non può essere separato dalla sua struttura
fisica. Il nostro corpo è , allo stesso
tempo, ciò che siamo e ciò mediante il
quale siamo nel mondo. Corpo e mondo, in quest’ottica, sarebbero indissociabili,
cosicché ognuno, nell’esperire la realtà circostante o il suo stesso corpo,
metterebbe comunque in atto gli stessi sistemi conoscitivi applicabili
alla realtà oggettuale. Il concetto di “corpo psichico” si traduce in
«io sono il mio corpo» ed «io
ho il mio corpo». Ciò significa che, se da una parte nel mio corpo
mi identifico, dall’altra, in quanto oggetto del mio possesso, il corpo
è sottoposto al destino di qualunque cosa io possieda: mi appartiene,
eppure non ho alcuna possibilità di impedire che mi sia tolto, che possa
logorarsi o semplicemente dissolversi.
Per una sorta di riscatto allo svilimento del corpo prodotto dalla morale
puritana, e dopo aver superato la sua strumentalizzazione adottata nella
lotta contro una morale, laica e religiosa, che condannava il corpo come
“prigione dell’anima”, la società attuale
sembra invece averlo non solo riscoperto e
rivalutato, ma persino mistificato. Il corpo è ovunque:
nella moda, nella pubblicità, sulla stampa, ecc... E' diventato centro
d'interesse, individuale e collettivo. Ma il corpo investito da queste
mille attenzioni, dietetiche, igieniche, terapeutiche, estetiche, altro
non è che un corpo ideale/idealizzato, irreale ossessione di una società
che aspira ad una eterna giovinezza, alla massima plasticità delle forme
corporee, alla massima sensualità, massima eleganza, massima virilità/femminilità.
In questo continuo affaticarsi, con ogni mezzo, per cercare quanto meno
di avvicinarsi al corpo ideale, i media ricordano, persino
attraverso messaggi allarmistici, che molti sono i "gravi" pericoli da
cui dobbiamo difendere il nostro corpo: il grasso, la cellulite, la perdita
di tono muscolare, l'avanzare dell'età, ecc...
Il corpo ideale è rappresentato,
nella coscienza collettiva, alimentata dalla logica del consumo, come
un corpo estremamente magro. La cultura occidentale dei nostri giorni
ha, paradossalmente, convertito l’ossessione della magrezza, in valore.
In altri contesti culturali, o persino semplicemente in altri tempi, al
contrario, uno dei parametri di definizione della bellezza era il grasso.
Nella nostra società, all’opposto, il grasso “(…) viene percepito come
sintomo di inerzia, mancanza di disciplina, resistenza a conformarsi e
assenza di tutte quelle capacità ‘manageriali’ che, secondo l’ideologia
dominante, favoriscono una mobilità sociale verso l’alto.” La definizione di bellezza
classica o tradizionale si fondava piuttosto sull'armonia, sulla proporzione
delle forme, a prescindere dalla quantità delle masse lipidiche corporee.
Secondo Susan Bordo, la magrezza ed il controllo
della fame sono stati, in luoghi e tempi diversi, considerati un indice
delle facoltà di auto-controllo dei propri istinti, dimostrazione tangibile
della predominanza della razionalità umana rispetto ai retaggi di pulsioni
animali che tendono a riaffiorare. Alla fine dell’'800, il vero nemico
da combattere non era più l’appetito, né il desiderio, bensì il grasso,
sinonimo di lascivia e ottundimento cerebrale, soprattutto nelle donne.
La magrezza assurse a valore distintivo della classe aristocratica che,
nella rinuncia alle sfrenatezze alimentari fondò il distinguo fra il proprio
benessere economico e quello di una borghesia arricchita, la quale, non
riuscendo a dimenticare la povertà d’origine, era incapace di vivere sobriamente
nel lusso.
Questa tensione ossessiva verso
modelli estetici filiformi viene interpretata da Jean Beaudrillard come il risultato di una
reazione ad un passato caratterizzato da disponibilità al consumo notevolmente
ridotte, in cui un corpo grasso, in quanto ostentatorio di
un benessere elitario, poteva rappresentare un segno distintivo di classe.
In una società superconsumistica (soprattutto dal punto di vista alimentare),
paradossalmente, è la snellezza, come simbolo di auto-privazione di un
benessere ormai quasi alla portata di tutti, segno di distinzione dalla
massa.
Ma anche questa ideale magrezza, a cui la nostra società si
ispira, è piuttosto una magrezza mistificata che nulla ha a che
vedere con la magrezza dell'indigente. La snellezza proposta come modello,
pur essendo ai limiti (se non oltre) dell'anoressia, e' invece una snellezza
consapevolmente scelta attraverso un controllo costante, a volte persino
maniacale, del proprio peso corporeo, della propria alimentazione (rigorosamente
sana), del proprio colorito (sano a tutti i costi), ecc. Il modello corporeo
a cui siamo sottomessi è rappresentato da una, paradossale quanto inesistente,
sana anoressia. A tale proposito, Susan Bordo ha scritto: «L’anoressica,
quindi, appare non come la vittima di una patologia unica e “bizzarra”,
ma come colei che reca informazioni estremamente inquietanti sulla nostra
cultura. » [7]. Il modello femminile dominante a partire dagli
anni '80 è un ibrido di mascolinità e femminilità, che incarna “(…) al
tempo stesso la tradizionale abnegazione femminile e la straordinaria
audacia e capacità di controllo del macho”.[8]
Gli anni '90 hanno riproposto questo stesso modello femminile ideale ma
apportandovi alcune correzioni: la donna ideale, per quanto magrissima,
ha attributi femminili che tendono all’esagerazione ed è soprattutto tonica,
quasi scolpita.
I canoni estetici dominanti si rinnovano o modificano continuamente, in
modo talmente rapido da generare nelle donne una sensazione diffusa di
inadeguatezza ed imponendo loro (molto più che agli uomini), sacrifici
estremi, in termini di alimentazione, di esercizio fisico, di make-up,
e quant’altro. Il nostro tempo impone una nuova femminilità, non più appresa
dalle descrizioni verbali, da modelli comportamentali o persone reali,
bensì dalle immagini proposte attraverso i mezzi di comunicazione di massa:
immagini che “educano” ad essere donne: attraverso la moda femminile del
momento, i comportamenti ed le movenze femminili dominanti.
Susan Bordo riassume questi concetti in modo estremamente efficace:
«A causa della ricerca di un ideale di femminilità in continuo mutamento,
omogenizzante e sfuggente – una ricerca che non finisce mai e che richiede
alle donne di prestare continuamente attenzione ai cambiamenti anche minimi
e spesso stravaganti che avvengono nella moda – i corpi femminili diventano
corpi docili, corpi le cui forze ed energie si abituano ad essere regolate
dall’esterno, a sottostare, a subire trasformazioni, a “migliorare”. A
causa delle discipline severe e normalizzanti della dieta, del trucco
e del vestire – i più importanti principi organizzatori del tempo e dello
spazio nella giornata di molte donne – tendiamo a trascurare la vita sociale
e a ripiegarci su noi stesse, a concentrarci sull’autotrasformazione.
A causa di queste discipline fissiamo sui nostri corpi la sensazione e
la convinzione di una mancanza, di non essere mai adeguate. Se portate
all’estremo, le pratiche della femminilità possono condurre allo sconforto
totale, alla debilitazione e alla morte. (…) il disciplinamento e la normalizzazione
del corpo femminile (…) devono essere considerati come una strategia di
controllo sociale straordinariamente longeva e flessibile. Nella nostra
epoca, è difficile non riconoscere come l’ossessione dell’aspetto – ancora
molto più potente nelle donne che negli uomini, anche nella nostra cultura
narcisistica e orientata all’immagine visiva – esprima una tendenza reazionaria
alla riaffermazione delle configurazioni di genere esistenti, in quanto
si oppone a qualsiasi tentativo di spostare o modificare i rapporti di
potere.»
Del resto, laddove, da parte del mondo femminile, si tenta di riproporre
una propria versione di “femminilità” che superi il rapporto di subordinazione
della donna rispetto all’uomo, la cultura maschilista attua un processo
reazionario, volto a riportare il femminile entro limiti di autonomia
stabiliti dalla tradizione, svolto attraverso un bombardamento di immagini
femminili totalmente dipendenti dagli uomini, deboli ed insicure, alla
continua ricerca di braccia virili fra le quali trovare la sicurezza che
manca loro.
L’eccessiva tensione verso modelli inarrivabili genera, in molti casi,
pulsioni violente, a volte esplicite ed esplicitate, altre volte più nascoste,
ma comunque attive. Si tratta di una violenza repressa, una silenziosa
ma inquieta aggressività, che viene diretta dall'individuo stesso contro
il proprio corpo, più o meno inconsciamente investito della responsabilità
delle proprie insoddisfazioni, delle continue frustrazioni. Il corpo si
è ormai trasformato in territorio di conflitto, dove le aspirazioni
a modelli fisici inarrivabili e la percezione del sé si scontrano, spesso
in modo violento. Il corpo femminile, in particolare, vive questo conflitto,
questo senso di insoddisfazione e inadeguatezza quotidianamente ed esprime
la sofferenza che ne deriva in maniera sintomatica. La massiccia diffusione
di disturbi alimentari che caratterizza questi ultimi decenni deve piuttosto
essere interpretata come una silenziosa protesta verso una femminilità
ideologicamente costruita che impone alle donne una disciplina impraticabile.
Il malessere generalizzato che investe il rapporto fra noi e la nostra
corporeità, deriva soprattutto dall’aver investito in aspettative impossibili,
il cui fallimento porta a percepire il corpo come traditore, come ostacolo
al raggiungimento dell’eterna giovinezza. Il corpo, pertanto, diviene
spesso bersaglio di una pulsione autodistruttiva.
Jean Beaudrillard, a tale proposito, ha scritto: "E' questa pulsione che,
al di là delle determinazioni della moda (ancora una volta incontestabili),
alimenta questo accanimento autodistruttivo insopportabile, irrazionale,
in cui la bellezza e l'eleganza, che erano i motivi originali, non sono
più che un alibi per un ossessionante esercizio disciplinare quotidiano.
Il corpo diviene, in un rovesciamento totale, questo oggetto minaccioso
che bisogna sorvegliare, ridimensionare, mortificare per fini «estetici»,
gli occhi fissi su le modelle scheletriche, spolpate di «Vogue», in cui
si può decifrare tutta l'aggressività inversa di una società dell'abbondanza
contro il proprio trionfalismo del corpo, tutte le veementi negazioni
dei propri principi."
La
tradizione occidentale ci aveva abituati a considerare il corpo come strumento,
qualcosa di cui servirsi. Semplice oggetto d’utilizzo, in passato il corpo
non è stato mai investito delle aspettative di immortalità, assoluta perfettibilità,
inattaccabilità e, pertanto, l’uomo era in un certo qual modo più preparato
al suo disfacimento, all’attacco della malattia, alla morte. Al contrario,
oggi siamo noi a servire il nostro corpo, a lottare, per difenderlo contro
gli attacchi del tempo, senza però averne tutti gli strumenti. Il tempo
e la morte sgretolano la forma di umanità che l’Occidente ha culturalmente
costruito: per questo vengono, con tutti i mezzi possibili, contrastati.
Cristopher Lasch, ha sostenuto la tesi secondo
cui la nostra società avrebbe perso interesse per il futuro e a causa
di questa perdita di interesse non riesce ad accettare l’idea della morte.
Secondo Lasch, dunque, la nostra società aspira a rimanere eternamente
giovane, e lo fa mettendo al bando quest’idea e quella di riproduzione.
Massimo Canevacci si dissocia da Cristopher Lasch e ritiene che invece
si sia verificato un mutamento generalizzato della percezione dell‘essere
e del sentire, cosicché il giovane “(…) anziché rimuovere la morte rifiutando
i figli e l‘invecchiamento, dissolve le tradizionali fasce d‘età dentro
le quali era stretto nel passato e sconfina.” Sconfina dalle “coazioni
del passato a divenire ‘adulti’(…)”.
L’ispirazione comune
delle manipolazioni corporee, almeno per quel che riguarda l’Occidente,
è la “lotta contro il tempo”, come ha fatto notare Borel. Ne sarebbero estrema
dimostrazione non solo il ricorso alla chirurgia estetica per tentare
di contrastare gli effetti del tempo, ma anche quello che impone il trattamento
cosmetico del cadavere, definito da Francesco Remotti «una delle finzioni
più manifeste: il cadavere rivestito, imbellettato, trattato “come se”
fosse vivo.».
In questa disperata lotta contro il tempo e la morte, l’Occidente, animato
da una fiducia illimitata nella nuova tecnologia, si lascia invadere da
un contagioso delirio di onnipotenza, contrastato soltanto dalla riflessione
sulla realtà del quotidiano, che ripropone invece la dolorosa limitatezza
umana, anche tecnologica, non ancora superabile.
Dopo aver operato sul corpo un processo di oggettivazione, la società
attuale, così abile nella progettazione e produzione di oggetti, sta pensando
di poter ricostruire un uomo “nuovo”, perfettibile dalla tecnologia, che
in questo modo rifiuta la contingenza che sembrava essergli destinata.
Faire et en faisant se faire, secondo la formula di Lecquier. Ed
è proprio sulla tecnologia, sulle sue possibili applicazioni al corpo
umano che, già a partire dagli anni’70, si sta focalizzando l’attenzione.
Se, fino a qualche decennio fa, l’idea di riprogettare
il corpo umano migliorandone le prestazioni, poteva sembrare blasfema
oltrechè utopica, oggi al contrario, sembra essere la prospettiva in cui
gli orientamenti tecnologici si stanno già muovendo, anche se con non
poche difficoltà. Coloro che si schierano a favore di un incontro fra
naturalità e tecnologia, promuovono un “farsi” che è stato ed è tuttora
condannato (attraverso la presentazione del “farsi” come “contraffarsi”),
in seno all’Occidente, perché considerato usurpativo, o quantomeno irrispettoso,
della facoltà e della volontà creatrice di Dio.
L’auto-trasformazione corporea implica necessariamente un superamento
della naturalità data (da Dio o dalla Natura), in favore di una artificialità
scelta, progettata e realizzata dall’individuo stesso.
La non-accettazione dell’intervento sul corpo, di qualsiasi intervento
ne cancelli la naturalità e lo trasformi in artefatto, ha da sempre acceso
una polemica, in Occidente, e persino scoraggiato la comprensione-accettazione
delle pratiche di manipolazione corporea operate in altri contesti culturali.
Eppure anche l’Occidente ricorre a pratiche di trasformazione estrema
del corpo, ma lo fa sempre giustificando in qualche modo se stesso. Nel
ricorrere alla chirurgia plastica, infatti, l’Occidente si auto-impone
il rispetto della “naturalità”. D’altra parte, l’eufenica, disciplina
medica che propone una chirurgia invasiva a scopo migliorativo, si auto-giustifica
con l’etica. Ciò significa che, anche la modificazione estrema di parti
anatomiche deve condurre a risultati che appaiano (ma non sono) in qualche
modo “naturali”. L’Occidente non è contrario alla manipolazione del corpo
tout court, ma alla esibizione delle trasformazioni che ne derivano.
Nella società occidentale contemporanea, estreme modificazioni corporee
vengono infatti operate e giustificate o accettate, ma solo a patto che
non vengano esibite o dichiarate. La chirurgia plastica è autorizzata
persino alla trasformazione sostanziale dei nostri corpi, purché le modificazioni
di cui si rende responsabile risultino impercettibili, camuffate da una
“naturalità” artificiosa dei risultati visibili.
Nelle culture preletterate, al contrario, è proprio la “innaturalità”
ad essere cercata e sottolineata dall’intervento sul corpo, in quanto
frutto di una scelta culturale che intende sottrarre l’uomo alla natura
e conquistarlo alla cultura, ossia umanizzarlo.
Ma anche all’interno delle realtà occidentali si sta verificando un aumento
sempre crescente della richiesta femminile di interventi chirurgici che
producano risultati volutamente, esageratamente innaturali. Il ricorso
alla chirurgia estetica è un fenomeno in crescita continua, crescita favorita
da costi sempre più accessibili e dall’imporsi, fra le donne, di un nuovo
modello femminile ultraquarantenne. L’immagine proposta da personalità
del mondo dello spettacolo che, grazie alla chirurgia estetica, mantengono
un aspetto giovane a dispetto dell’età biologica, ha influito notevolmente
sull’aumento delle richieste di interventi di chirurgia estetica da parte
delle donne, che vi si sottopongono spinte non più prevalentemente per
correggere un difetto fisico, quanto per combattere l’azione del tempo
e per rimodellare il proprio corpo secondo i dettami omologanti della
moda. Laddove i mass media tentano un’opera di dissuasione dalla chirurgia
estetica attraverso il proponimento di esempi estremi di interventi non
riusciti, questa negatività della chirurgia estetica assume una scarsa
credibilità per coloro ai quali il messaggio è rivolto. Quest’ultimo,
infatti, non intende liberare gli spettatori dal bisogno di “migliorarsi”
attraverso la chirurgia estetica, riaffermando, per esempio, altri valori
o proponendone di nuovi che alla chirurgia estetica si sostituiscano,
ma strumentalizza gli insuccessi di questa per attrarre la curiosità morbosa
del pubblico.
L’intervento chirurgico sul corpo, desta comunque delle perplessità e
suscita spesso delle opposizioni, anche laddove si tratta di salvare un
corpo malato, poiché viene vissuto come “pervertimento dell’ordine naturale”.
Dietro la condanna della modificazione della naturalità corporea data
si nasconde, dunque, soprattutto una volontà di difendere un’ideologia
religiosa, quella monoteistica, che denuncia la superbia umana dimostrata
nel volersi sostituire a Dio e alla Natura, mettendosi in competizione
con la loro attività creatrice.
All’interno dei grandi monoteismi, la religione ebraica rappresenta, per
certi versi, una sorta di eccezione, in quanto non solo accetta ma impone
la circoncisione maschile ai suoi fedeli.
La circoncisione ebraica, prevista dal Vecchio Testamento, ha creato le
condizioni della separazione fra Cristiani ed Ebrei. Esplicitamente richiesta
da Dio al “popolo eletto”, come prova di fedeltà, la circoncisione viene
praticata dagli Ebrei come simbolo dell’alleanza fra Dio e l’uomo, elemento
separatore fra i “peccatori” e gli “eletti”.
I Cristiani, invece, interpretano la richiesta di Dio come una prova di
fedeltà simbolica, cosicché ritengono che la circoncisione debba essere
praticata all’interno, nello spirito, nel cuore. Il corpo, nell’ottica
cristiana, deve essere mantenuto il più possibile nella condizione in
cui Dio lo ha donato.
Più in generale, l’intervento di trasformazione corporea viene categoricamente
rifiutato dalle culture chiuse, che temono di poter subire una contaminazione
dei costumi e la conseguente possibilità che l’idea di “self-made man”
possa in esse radicarsi.
La logica dei consumi viene applicata, indistintamente, ad oggetti e persone,
cosicché la società promuove, soprattutto attraverso i messaggi mediatici,
una considerazione del corpo quale oggetto di rappresentazione del sé
e, contemporaneamente, quale strumento di godimento del consumo.
Per secoli siamo stati educati a concentrare le nostre attenzioni esclusivamente
sullo spirito, portati a ritenere che il nostro corpo fosse solo uno strumento,
fornito da Dio o dalla Natura per servirci, ora veniamo continuamente
sollecitati dai messaggi mediatici a servirlo e a credere che sia soprattutto
la nostra fisicità a rappresentarci. Siamo il nostro corpo. Il corpo mistificato,
caratteristico della nostra società, non è più "carne" (come nella logica
religiosa), né "forza-lavoro" (come nella logica industriale), bensì "oggetto
di culto narcisistico", sottomesso ai soli valori della bellezza e dell'erotismo,
valori, questi, peraltro funzionali all'offerta del corpo in quanto oggetto
di consumo. In particolare, poiché l’erotismo esercita un’azione di attrazione
inconfutabile, si è giunti ad applicarlo come strategia di commercializzazione
dei prodotti più disparati. A ragione, dunque, Jean Beaudrillard parla di una “erotizzazione
smisurata”. Messaggi erotici, più o meno espliciti, investono ormai, indifferentemente,
persone ed oggetti. Ma il corpo oggettivato, per quanto erotico, sensuale
e necessariamente perfetto (nel rispetto dei canoni estetici ufficialmente
riconosciuti), è un corpo sublimato, disincarnato, in cui ogni riferimento
alla carnalità viene prudentemente negato. “Ci sono poche immagini che
ti forzano a chiudere gli occhi: morte, sofferenze e aperture del corpo,
alcuni aspetti della pornografia per alcune persone e per altre la nascita.” La carnalità del corpo
genera forti inquietudini, richiama l’orrore della morte, della dissoluzione
di un corpo che la cultura positivista ci ha abituato a non voler riconoscere
ed accettare come evento naturale.
Il rifiuto della carnalità corporea viene espresso, con particolare vigore,
da Antonin Artaud, propugnatore dell’idea di corpo senza organi, secondo
il quale esisterebbe una confusione fra il corpo e l’organismo. Secondo
Artaud, il corpo non ha bisogno di organi e non si identifica nell’organismo
con il quale invece lo si confonde. Sarebbero proprio gli organismi i
nemici del corpo, soggetti a deperimento, putrefazione. Artaud parla quindi
di autonomia del corpo rispetto alla sua organicità, invita a sottrarsi
alla “deriva della carne”, “al suo metastatico anelito di morte”. La morte non è più un
evento naturale, così come non lo è la malattia né l’imperfezione fisica
rispetto ai canoni estetici imperanti. L’intera realtà prodotta dai mezzi
di comunicazione di massa è una non-realtà, rassicurante persino laddove
propone la crudezza di immagini di corpi mutilati, dei quali riesce, oggettivizzandoli,
ad annullarne l’aspetto umano e quindi a proteggerci dall’orrore che nasce
dal prendere coscienza del fatto che quei corpi mutilati non sono poi
così diversi dai nostri, altrettanto deperibili. Se invece gli stessi
corpi li vedessimo con i nostri occhi e non attraverso quelli dei mass-media,
ne rimarremmo sconvolti, costretti a confrontarci con quell’organicità
che ci ostiniamo a rifiutare.
Il rapporto con il nostro corpo è stato definito da Jean Beaudrillard, come sollecitudine
repressiva, sollecitudine presente in tutte le ossessioni collettive
relative al corpo. Il concetto è concretamente traducibile in quell’attenzione,
spesso maniacale, per l’igiene corporea, la sterilità, l’asepsi, la profilassi,
ecc. Dietro tale ossessione si nasconderebbe, in realtà, la volontà di
esorcizzare il corpo «organico» , di negarne soprattutto le funzioni più
“basse”(per es. quella escretiva) e di proporre il corpo solo ed esclusivamente
come oggetto levigato e perfetto, asessuato, protetto, anche da se stesso.
Soprattutto a partire dall’inizio degli anni '90, gli anni in cui si è
verificato un incremento dei casi di Aids e di malattie tumorali, è emersa
una vera e propria ossessione del corpo, di un corpo nemico a se stesso,
la cui distruzione avviene a partire dal suo sistema immunitario. Tale
ossessione si è manifestata in una generalizzata psicosi di morte.
Sul piano relazionale, la paura diffusa ha prodotto distanze umane e una
diffidenza generalizzata, verso gli altri e persino verso il proprio corpo.
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