1.1 IL CORPO: SUA RISCOPERTA E TRASFORMAZIONE IN OGGETTO DI CONSUMO


La questione della percezione del corpo ha da sempre suscitato, oltrechè  grandissimo interesse, accesi dibattiti filosofici e morali. Nel tentativo di appianare il conflitto di sempre, quello che, alternativamente, ha preposto il corpo allo spirito o viceversa, ci si è appellati al concetto di “corpo psichico”, concetto che sintetizza, in modo perfettamente bilanciato, l’unità di corpo/anima. L’idea di “corpo-psichico” si basa sul principio secondo il quale ognuno di noi non può essere separato dalla sua struttura fisica. Il nostro corpo è , allo stesso tempo, ciò che siamo e ciò mediante il quale siamo nel mondo. Corpo e mondo, in quest’ottica, sarebbero indissociabili, cosicché ognuno, nell’esperire la realtà circostante o il suo stesso corpo, metterebbe comunque in atto gli stessi sistemi conoscitivi applicabili alla realtà oggettuale. Il concetto di “corpo psichico” si traduce in «io sono il mio corpo» ed «io ho il mio corpo». Ciò significa che, se da una parte nel mio corpo mi identifico, dall’altra, in quanto oggetto del mio possesso, il corpo è sottoposto al destino di qualunque cosa io possieda: mi appartiene, eppure non ho alcuna possibilità di impedire che mi sia tolto, che possa logorarsi o semplicemente dissolversi.
Per una sorta di riscatto allo svilimento del corpo prodotto dalla morale puritana, e dopo aver superato la sua strumentalizzazione adottata nella lotta contro una morale, laica e religiosa, che condannava il corpo come “prigione dell’anima”, la società attuale sembra invece averlo non solo  riscoperto e  rivalutato, ma persino mistificato. Il corpo è ovunque: nella moda, nella pubblicità, sulla stampa, ecc... E' diventato centro d'interesse, individuale e collettivo. Ma il corpo investito da queste mille attenzioni, dietetiche, igieniche, terapeutiche, estetiche, altro non è che un corpo ideale/idealizzato, irreale ossessione di una società che aspira ad una eterna giovinezza, alla massima plasticità delle forme corporee, alla massima sensualità, massima eleganza, massima virilità/femminilità. In questo continuo affaticarsi, con ogni mezzo, per cercare quanto meno di avvicinarsi al corpo ideale, i media ricordano,  persino attraverso messaggi allarmistici, che molti sono i "gravi" pericoli da cui dobbiamo difendere il nostro corpo: il grasso, la cellulite, la perdita di tono muscolare, l'avanzare dell'età, ecc...
Il corpo ideale è rappresentato, nella coscienza collettiva, alimentata dalla logica del consumo, come un corpo estremamente magro. La cultura occidentale dei nostri giorni ha, paradossalmente, convertito l’ossessione della magrezza, in valore. In altri contesti culturali, o persino semplicemente in altri tempi, al contrario, uno dei parametri di definizione della bellezza era il grasso. Nella nostra società, all’opposto, il grasso “(…) viene percepito come sintomo di inerzia, mancanza di disciplina, resistenza a conformarsi e assenza di tutte quelle capacità ‘manageriali’ che, secondo l’ideologia dominante, favoriscono una mobilità sociale verso l’alto.”[4] La definizione di bellezza classica o tradizionale si fondava piuttosto sull'armonia, sulla proporzione delle forme, a prescindere dalla quantità delle masse lipidiche corporee.
Secondo Susan Bordo[5], la magrezza ed il controllo della fame sono stati, in luoghi e tempi diversi, considerati un indice delle facoltà di auto-controllo dei propri istinti, dimostrazione tangibile della predominanza della razionalità umana rispetto ai retaggi di pulsioni animali che tendono a riaffiorare. Alla fine dell’'800, il vero nemico da combattere non era più l’appetito, né il desiderio, bensì il grasso, sinonimo di lascivia e ottundimento cerebrale, soprattutto nelle donne. La magrezza assurse a valore distintivo della classe aristocratica che, nella rinuncia alle sfrenatezze alimentari fondò il distinguo fra il proprio benessere economico e quello di una borghesia arricchita, la quale, non riuscendo a dimenticare la povertà d’origine, era incapace di vivere sobriamente nel lusso.
Questa tensione ossessiva verso modelli estetici filiformi viene interpretata da Jean Beaudrillard[6] come il risultato di una reazione ad un passato caratterizzato da disponibilità al consumo notevolmente ridotte, in cui un corpo grasso, in quanto ostentatorio  di un benessere elitario, poteva rappresentare un segno distintivo di classe. In una società superconsumistica (soprattutto dal punto di vista alimentare), paradossalmente, è la snellezza, come simbolo di auto-privazione di un benessere ormai quasi alla portata di tutti, segno di distinzione dalla massa.
Ma anche questa ideale magrezza, a cui la nostra società  si ispira, è piuttosto una magrezza mistificata che nulla ha a che vedere con la magrezza dell'indigente. La snellezza proposta come modello, pur essendo ai limiti (se non oltre) dell'anoressia, e' invece una snellezza consapevolmente scelta attraverso un controllo costante, a volte persino maniacale, del proprio peso corporeo, della propria alimentazione (rigorosamente sana), del proprio colorito (sano a tutti i costi), ecc. Il modello corporeo a cui siamo sottomessi è rappresentato da una, paradossale quanto inesistente, sana anoressia. A tale proposito, Susan Bordo ha scritto: «L’anoressica, quindi, appare non come la vittima di una patologia unica e “bizzarra”, ma come colei che reca informazioni estremamente inquietanti sulla nostra cultura. » [7]. Il modello femminile dominante a partire dagli anni '80 è un ibrido di mascolinità e femminilità, che incarna “(…) al tempo stesso la tradizionale abnegazione femminile e la straordinaria audacia e capacità di controllo del macho”.[8]
Gli anni '90 hanno riproposto questo stesso modello femminile ideale ma apportandovi alcune correzioni: la donna ideale, per quanto magrissima, ha attributi femminili che tendono all’esagerazione ed è soprattutto tonica, quasi scolpita.
I canoni estetici dominanti si rinnovano o modificano continuamente, in modo talmente rapido da generare nelle donne una sensazione diffusa di inadeguatezza ed imponendo loro (molto più che agli uomini), sacrifici estremi, in termini di alimentazione, di esercizio fisico, di make-up, e quant’altro. Il nostro tempo impone una nuova femminilità, non più appresa dalle descrizioni verbali, da modelli comportamentali o persone reali, bensì dalle immagini proposte attraverso i mezzi di comunicazione di massa: immagini che “educano” ad essere donne: attraverso la moda femminile del momento, i comportamenti ed le movenze femminili dominanti.  Susan Bordo riassume questi concetti in modo estremamente efficace:
«A causa della ricerca di un ideale di femminilità in continuo mutamento, omogenizzante e sfuggente – una ricerca che non finisce mai e che richiede alle donne di prestare continuamente attenzione ai cambiamenti anche minimi e spesso stravaganti che avvengono nella moda – i corpi femminili diventano corpi docili, corpi le cui forze ed energie si abituano ad essere regolate dall’esterno, a sottostare, a subire trasformazioni, a “migliorare”. A causa delle discipline severe e normalizzanti della dieta, del trucco e del vestire – i più importanti principi organizzatori del tempo e dello spazio nella giornata di molte donne – tendiamo a trascurare la vita sociale e a ripiegarci su noi stesse, a concentrarci sull’autotrasformazione. A causa di queste discipline fissiamo sui nostri corpi la sensazione e la convinzione di una mancanza, di non essere mai adeguate. Se portate all’estremo, le pratiche della femminilità possono condurre allo sconforto totale, alla debilitazione e alla morte. (…) il disciplinamento e la normalizzazione del corpo femminile (…) devono essere considerati come una strategia di controllo sociale straordinariamente longeva e flessibile. Nella nostra epoca, è difficile non riconoscere come l’ossessione dell’aspetto – ancora molto più potente nelle donne che negli uomini, anche nella nostra cultura narcisistica e orientata all’immagine visiva – esprima una tendenza reazionaria alla riaffermazione delle configurazioni di genere esistenti, in quanto si oppone a qualsiasi tentativo di spostare o modificare i rapporti di potere.»[9]
Del resto, laddove, da parte del mondo femminile, si tenta di riproporre una propria versione di “femminilità” che superi il rapporto di subordinazione della donna rispetto all’uomo, la cultura maschilista attua un processo reazionario, volto a riportare il femminile entro limiti di autonomia stabiliti dalla tradizione, svolto attraverso un bombardamento di immagini femminili totalmente dipendenti dagli uomini, deboli ed insicure, alla continua ricerca di braccia virili fra le quali trovare la sicurezza che manca loro.[10]
L’eccessiva tensione verso modelli inarrivabili genera, in molti casi, pulsioni violente, a volte esplicite ed esplicitate, altre volte più nascoste, ma comunque attive. Si tratta di una violenza repressa, una silenziosa ma inquieta aggressività, che viene diretta dall'individuo stesso contro il proprio corpo, più o meno inconsciamente investito della responsabilità delle proprie insoddisfazioni, delle continue frustrazioni. Il corpo si  è ormai trasformato in territorio di conflitto, dove le aspirazioni a modelli fisici inarrivabili e la percezione del sé si scontrano, spesso in modo violento. Il corpo femminile, in particolare, vive questo conflitto, questo senso di insoddisfazione e inadeguatezza quotidianamente ed esprime la sofferenza che ne deriva in maniera sintomatica. La massiccia diffusione di disturbi alimentari che caratterizza questi ultimi decenni deve piuttosto essere interpretata come una silenziosa protesta verso una femminilità ideologicamente costruita che impone alle donne una disciplina impraticabile.
Il malessere generalizzato che investe il rapporto fra noi e la nostra corporeità, deriva soprattutto dall’aver investito in aspettative impossibili, il cui fallimento porta a percepire il corpo come traditore, come ostacolo al raggiungimento dell’eterna giovinezza. Il corpo, pertanto, diviene spesso bersaglio di una pulsione autodistruttiva.
Jean Beaudrillard, a tale proposito, ha scritto: "E' questa pulsione che, al di là delle determinazioni della moda (ancora una volta incontestabili), alimenta questo accanimento autodistruttivo insopportabile, irrazionale, in cui la bellezza e l'eleganza, che erano i motivi originali, non sono più che un alibi per un ossessionante esercizio disciplinare quotidiano. Il corpo diviene, in un rovesciamento totale, questo oggetto minaccioso che bisogna sorvegliare, ridimensionare, mortificare per fini «estetici», gli occhi fissi su le modelle scheletriche, spolpate di «Vogue», in cui si può decifrare tutta l'aggressività inversa di una società dell'abbondanza contro il proprio trionfalismo del corpo, tutte le veementi negazioni dei propri principi."[11]
La tradizione occidentale ci aveva abituati a considerare il corpo come strumento, qualcosa di cui servirsi. Semplice oggetto d’utilizzo, in passato il corpo non è stato mai investito delle aspettative di immortalità, assoluta perfettibilità, inattaccabilità e, pertanto, l’uomo era in un certo qual modo più preparato al suo disfacimento, all’attacco della malattia, alla morte. Al contrario, oggi siamo noi a servire il nostro corpo, a lottare, per difenderlo contro gli attacchi del tempo, senza però averne tutti gli strumenti. Il tempo e la morte sgretolano la forma di umanità che l’Occidente ha culturalmente costruito: per questo vengono, con tutti i mezzi possibili, contrastati. Cristopher Lasch,[12] ha sostenuto la tesi secondo cui la nostra società avrebbe perso interesse per il futuro e a causa di questa perdita di interesse non riesce ad accettare l’idea della morte. Secondo Lasch, dunque, la nostra società aspira a rimanere eternamente giovane, e lo fa mettendo al bando quest’idea e quella di riproduzione. Massimo Canevacci si dissocia da Cristopher Lasch e ritiene che invece si sia verificato un mutamento generalizzato della percezione dell‘essere e del sentire, cosicché il giovane “(…) anziché rimuovere la morte rifiutando i figli e l‘invecchiamento, dissolve le tradizionali fasce d‘età dentro le quali era stretto nel passato e sconfina.” Sconfina dalle “coazioni del passato a divenire ‘adulti’(…)”.[13]
L’ispirazione comune delle manipolazioni corporee, almeno per quel che riguarda l’Occidente, è la “lotta contro il tempo”, come ha fatto notare Borel[14]. Ne sarebbero estrema dimostrazione non solo il ricorso alla chirurgia estetica per tentare di contrastare gli effetti del tempo, ma anche quello che impone il trattamento cosmetico del cadavere, definito da Francesco Remotti «una delle finzioni più manifeste: il cadavere rivestito, imbellettato, trattato “come se” fosse vivo.»[15].
In questa disperata lotta contro il tempo e la morte, l’Occidente, animato da una fiducia illimitata nella nuova tecnologia, si lascia invadere da un contagioso delirio di onnipotenza, contrastato soltanto dalla riflessione sulla realtà del quotidiano, che ripropone invece la dolorosa limitatezza umana, anche tecnologica, non ancora superabile.

Dopo aver operato sul corpo un processo di oggettivazione, la società attuale, così abile nella progettazione e produzione di oggetti, sta pensando di poter ricostruire un uomo “nuovo”, perfettibile dalla tecnologia, che in questo modo rifiuta la contingenza che sembrava essergli destinata. Faire et en faisant se faire, secondo la formula di Lecquier. Ed è proprio sulla tecnologia, sulle sue possibili applicazioni al corpo umano che, già a partire dagli anni’70, si sta focalizzando l’attenzione. Se, fino a qualche decennio fa, l’idea di  riprogettare il corpo umano migliorandone le prestazioni, poteva sembrare blasfema oltrechè utopica, oggi al contrario, sembra essere la prospettiva in cui gli orientamenti tecnologici si stanno già muovendo, anche se con non poche difficoltà. Coloro che si schierano a favore di un incontro fra naturalità e tecnologia, promuovono un “farsi” che è stato ed è tuttora condannato (attraverso la presentazione del “farsi” come “contraffarsi”), in seno all’Occidente, perché considerato usurpativo, o quantomeno irrispettoso, della facoltà e della volontà creatrice di Dio.
L’auto-trasformazione corporea implica necessariamente un superamento della naturalità data (da Dio o dalla Natura), in favore di una artificialità scelta, progettata e realizzata dall’individuo stesso.
La non-accettazione dell’intervento sul corpo, di qualsiasi intervento ne cancelli la naturalità e lo trasformi in artefatto, ha da sempre acceso una polemica, in Occidente, e persino scoraggiato la comprensione-accettazione delle pratiche di manipolazione corporea operate in altri contesti culturali. Eppure anche l’Occidente ricorre a pratiche di trasformazione estrema del corpo, ma lo fa sempre giustificando in qualche modo se stesso. Nel ricorrere alla chirurgia plastica, infatti, l’Occidente si auto-impone il rispetto della “naturalità”. D’altra parte, l’eufenica, disciplina medica che propone una chirurgia invasiva a scopo migliorativo, si auto-giustifica con l’etica. Ciò significa che, anche la modificazione estrema di parti anatomiche deve condurre a risultati che appaiano (ma non sono) in qualche modo “naturali”. L’Occidente non è contrario alla manipolazione del corpo tout court, ma alla esibizione delle trasformazioni che ne derivano. Nella società occidentale contemporanea, estreme modificazioni corporee vengono infatti operate e giustificate o accettate, ma solo a patto che non vengano esibite o dichiarate. La chirurgia plastica è autorizzata persino alla trasformazione sostanziale dei nostri corpi, purché le modificazioni di cui si rende responsabile risultino impercettibili, camuffate da una “naturalità” artificiosa dei risultati visibili.
Nelle culture preletterate, al contrario, è proprio la “innaturalità” ad essere cercata e sottolineata dall’intervento sul corpo, in quanto frutto di una scelta culturale che intende sottrarre l’uomo alla natura e conquistarlo alla cultura, ossia umanizzarlo.
Ma anche all’interno delle realtà occidentali si sta verificando un aumento sempre crescente della richiesta femminile di interventi chirurgici che producano risultati volutamente, esageratamente innaturali. Il ricorso alla chirurgia estetica è un fenomeno in crescita continua, crescita favorita da costi sempre più accessibili e dall’imporsi, fra le donne, di un nuovo modello femminile ultraquarantenne. L’immagine proposta da personalità del mondo dello spettacolo che, grazie alla chirurgia estetica, mantengono un aspetto giovane a dispetto dell’età biologica, ha influito notevolmente sull’aumento delle richieste di interventi di chirurgia estetica da parte delle donne, che vi si sottopongono spinte non più prevalentemente per correggere un difetto fisico, quanto per combattere l’azione del tempo e per rimodellare il proprio corpo secondo i dettami omologanti della moda. Laddove i mass media tentano un’opera di dissuasione dalla chirurgia estetica attraverso il proponimento di esempi estremi di interventi non riusciti, questa negatività della chirurgia estetica assume una scarsa credibilità per coloro ai quali il messaggio è rivolto. Quest’ultimo, infatti, non intende liberare gli spettatori dal bisogno di “migliorarsi” attraverso la chirurgia estetica, riaffermando, per esempio, altri valori  o proponendone di nuovi che alla chirurgia estetica si sostituiscano, ma strumentalizza gli insuccessi di questa per attrarre la curiosità morbosa del pubblico.
L’intervento chirurgico sul corpo, desta comunque delle perplessità e suscita spesso delle opposizioni, anche laddove si tratta di salvare un corpo malato, poiché viene vissuto come “pervertimento dell’ordine naturale”.[16]
Dietro la condanna della modificazione della naturalità corporea data si nasconde, dunque, soprattutto una volontà di difendere un’ideologia religiosa, quella monoteistica, che denuncia la superbia umana dimostrata nel volersi sostituire a Dio e alla Natura, mettendosi in competizione con la loro attività creatrice.
All’interno dei grandi monoteismi, la religione ebraica rappresenta, per certi versi, una sorta di eccezione, in quanto non solo accetta ma impone la circoncisione maschile ai suoi fedeli.
La circoncisione ebraica, prevista dal Vecchio Testamento, ha creato le condizioni della separazione fra Cristiani ed Ebrei. Esplicitamente richiesta da Dio al “popolo eletto”, come prova di fedeltà, la circoncisione viene praticata dagli Ebrei come simbolo dell’alleanza fra Dio e l’uomo, elemento separatore fra i “peccatori” e gli “eletti”.
I Cristiani, invece, interpretano la richiesta di Dio come una prova di fedeltà simbolica, cosicché ritengono che la circoncisione debba essere praticata all’interno, nello spirito, nel cuore. Il corpo, nell’ottica cristiana, deve essere mantenuto il più possibile nella condizione in cui Dio lo ha donato.
Più in generale, l’intervento di trasformazione corporea viene categoricamente rifiutato dalle culture chiuse, che temono di poter subire una contaminazione dei costumi e la conseguente possibilità che l’idea di “self-made man” possa in esse radicarsi.
La logica dei consumi viene applicata, indistintamente, ad oggetti e persone, cosicché la società promuove, soprattutto attraverso i messaggi mediatici, una considerazione del corpo quale oggetto di rappresentazione del sé e, contemporaneamente, quale strumento di godimento del consumo.
Per secoli siamo stati educati a concentrare le nostre attenzioni esclusivamente sullo spirito, portati a ritenere che il nostro corpo fosse solo uno strumento,  fornito da Dio o dalla Natura per servirci, ora veniamo continuamente sollecitati dai messaggi mediatici a servirlo e a credere che sia soprattutto la nostra fisicità a rappresentarci. Siamo il nostro corpo. Il corpo mistificato, caratteristico della nostra società, non è più "carne" (come nella logica religiosa), né "forza-lavoro" (come nella logica industriale), bensì "oggetto di culto narcisistico", sottomesso ai soli valori della bellezza e dell'erotismo, valori, questi, peraltro funzionali all'offerta del corpo in quanto oggetto di consumo. In particolare, poiché l’erotismo esercita un’azione di attrazione inconfutabile, si è giunti ad applicarlo come strategia di commercializzazione dei prodotti più disparati. A ragione, dunque, Jean Beaudrillard[17] parla di una “erotizzazione smisurata”. Messaggi erotici, più o meno espliciti, investono ormai, indifferentemente, persone ed oggetti. Ma il corpo oggettivato, per quanto erotico, sensuale e necessariamente perfetto (nel rispetto dei canoni estetici ufficialmente riconosciuti), è un corpo sublimato, disincarnato, in cui ogni riferimento alla carnalità viene prudentemente negato. “Ci sono poche immagini che ti forzano a chiudere gli occhi: morte, sofferenze e aperture del corpo, alcuni aspetti della pornografia per alcune persone e per altre la nascita.”[18] La carnalità del corpo genera forti inquietudini, richiama l’orrore della morte, della dissoluzione di un corpo che la cultura positivista ci ha abituato a non voler riconoscere ed accettare come evento naturale.
Il rifiuto della carnalità corporea viene espresso, con particolare vigore, da Antonin Artaud, propugnatore dell’idea di corpo senza organi, secondo il quale esisterebbe una confusione fra il corpo e l’organismo. Secondo Artaud, il corpo non ha bisogno di organi e non si identifica nell’organismo con il quale invece lo si confonde. Sarebbero proprio gli organismi i nemici del corpo, soggetti a deperimento, putrefazione. Artaud parla quindi di autonomia del corpo rispetto alla sua organicità, invita a sottrarsi alla “deriva della carne”, “al suo metastatico anelito di morte”[19]. La morte non è più un evento naturale, così come non lo è la malattia né l’imperfezione fisica rispetto ai canoni estetici imperanti. L’intera realtà prodotta dai mezzi di comunicazione di massa è una non-realtà, rassicurante persino laddove propone la crudezza di immagini di corpi mutilati, dei quali riesce, oggettivizzandoli, ad annullarne l’aspetto umano e quindi a proteggerci dall’orrore che nasce dal prendere coscienza del fatto che quei corpi mutilati non sono poi così diversi dai nostri, altrettanto deperibili. Se invece gli stessi corpi li vedessimo con i nostri occhi e non attraverso quelli dei mass-media, ne rimarremmo sconvolti, costretti a confrontarci con quell’organicità che ci ostiniamo a rifiutare.
Il rapporto con il nostro corpo è stato definito da Jean Beaudrillard[20], come sollecitudine repressiva, sollecitudine presente in tutte le ossessioni collettive relative al corpo. Il concetto è concretamente traducibile in quell’attenzione, spesso maniacale, per l’igiene corporea, la sterilità, l’asepsi, la profilassi, ecc. Dietro tale ossessione si nasconderebbe, in realtà, la volontà di esorcizzare il corpo «organico» , di negarne soprattutto le funzioni più “basse”(per es. quella escretiva) e di proporre il corpo solo ed esclusivamente come oggetto levigato e perfetto, asessuato, protetto, anche da se stesso. Soprattutto a partire dall’inizio degli anni '90, gli anni in cui si è verificato un incremento dei casi di Aids e di malattie tumorali, è emersa una vera e propria ossessione del corpo, di un corpo nemico a se stesso, la cui distruzione avviene a partire dal suo sistema immunitario. Tale ossessione si è manifestata in una generalizzata psicosi di morte.
Sul piano relazionale, la paura diffusa ha prodotto distanze umane e una diffidenza generalizzata, verso gli altri e persino verso il proprio corpo.


[4] Bordo S., Il peso del corpo, Feltrinelli, Milano, 1997, p.129.
[5] Bordo S., op. cit., p.119.
[6] Beaudrillard J., La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, Bologna, 1976, pp. 200-201
[7] Bordo S., op. cit., p.19.
[8] Bordo S., op. cit., p.107.

[9] Bordo S., op. cit., p.100.
[10] Bordo S., op. cit., p.101.
[11] Beaudrillard J., op. cit., p.203.
[12] Lasch C., La cultura del narcisismo: l’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive., Milano, Bompiani, 1992.
[13] Canevacci M., Culture Extreme. Mutazioni giovanili tra i corpi delle metropoli., Meltemi Editore, 1999, Roma, p.36.
[14] Borel P., Le vêtement incarnè.Les mètamorphoses du corps, Paris, Calmann-Lèvy, 1992.
[15] Remotti F., op. cit., p.138.
[16] Macrì T., Il corpo postorganico. Sconfinamenti della performance, Costa & Nolan, Genova, 1997, p.54.
[17] Beaudrillard J.,op. cit.p.206.
[18] Macrì T., op. cit., p.69.
[19] Macrì T., op. cit., p.74.
[20] Beaudrillard J., op. cit., p.202.