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Uomini si nasce, umani si diventa. Il processo di “umanizzazione” è innanzitutto
processo culturale, che plasma l’uomo biologico dal punto di vista emotivo,
etico o morale, estetico, cognitivo, secondo modelli culturali ufficialmente
riconosciuti, ma non per questo universalmente validi, né necessariamente
condivisi da tutti coloro che appartengono ad una stessa cultura. L’azione
plasmante svolta dai modelli acculturativi di riferimento agisce sulle
componenti sociali attraverso i canali educativi operanti, fra i quali,
nelle società occidentali, famiglia, scuola e mass-media; in quelle
preletterate, famiglia allargata, tradizioni, rituali iniziatici e così
via. Tra gli orientamenti teorici relativi alle finalità perseguite dai
processi di umanizzazione, secondo Francesco Remotti sono individuabili
due posizioni: quella dei teorici dell’antropopoiesi che si contrappone
a quella sostenuta, tra gli altri, da Marilyn Strathern. I primi ritengono
che i processi di umanizzazione debbano necessariamente completare l’uomo
biologico (di per sé incompleto); la seconda, al contrario, ritiene che
la condizione umana da superare sia proprio quella iniziale che lei stessa,
a suo modo, definisce di completezza e che, pertanto, “fare umanità” sia
“fare incompletezza”. Secondo la teoria antropopoietica, l’uomo biologico
è incompleto, perché le sue limitate risorse biologiche non gli garantiscono
né di superare le sfide a cui l’ambiente lo sottopone, né di organizzare
la sua stessa realtà. La soluzione viene in questo caso individuata nel
ricorso alla cultura come strategia di completamento umano. In realtà,
la cultura sopperisce solo limitatamente alle carenze biologiche: poiché
una cultura è capace di produrre, al suo interno, solo alcune forme di
umanità, questo genera un diffuso senso di frustrazione per le possibilità
di forme umane non realizzate al suo interno. Solo l’apertura verso altre
forme di umanità, presenti in altri contesti sociali, e la loro integrazione
può far superare questo senso di frustrazione. I teorici dell’antropo-poietica,
dunque, coltivano l’illusione che la plasmazione culturale possa trasformare
l’incompletezza originaria dell’uomo biologico in completezza umanizzata.
La cultura sopperisce, seppure limitatamente alle carenze biologiche,
ma, poiché contribuisce solo alla creazione di alcune forme di umanità
e non di tutte le possibili forme realizzabili, svolge anch’essa un’azione
limitata. La contrapposizione a questa interpretazione, rappresentata,
come si è detto, da Marilyn Strathern, si fonda sul rifiuto dell’interpretazione
dei rituali iniziatici come processo di completamento culturale di una
incompleta umanità biologica di base. L’antropologa, infatti, parte dall’assunto
per cui la condizione infantile che il rito si propone di superare sarebbe,
in opposizione alla teoria antropo-poietica, una condizione di completezza,
laddove per “completezza” si intende una convivenza di antipodiche possibilità
di essere umani. La condizione infantile è infatti caratterizzata dall’indeterminatezza
di genere: maschile e femminile convivono, nel bambino, peraltro senza
conflitti. Secondo la studiosa, rispetto a questa coincidenza degli opposti
che definisce una sorta di completezza, il rito imporrebbe, semmai, una
costruzione di umanità incompleta, attraverso la rinuncia culturalizzata
all’androginia infantile. Il rito iniziatico, con l’eliminazione di questa compresenza
di ruoli sessuali, trasformerebbe il bambino androgino (e dunque completo)
in un individuo adulto incompleto (maschio o femmina), eliminando, irrevocabilmente,
alcune delle possibilità alternative dell’essere. Ma, d’altra parte,
Marilyn Strathern riconosce che è proprio tale incompletezza a indurre
l’incontro fra i sessi, garanzia basilare di continuità sociale. Secondo
Francesco Remotti, entrambe le visioni, quella
di Marilyn Strathern e quella antropo-poietica, si fondano sull’illusione
che l’uomo possa raggiungere o partire da una situazione di completezza.
Dal suo punto di vista, invece, “umanità” e “completezza” risultano essere
concetti inconciliabili, perché “(…) insieme a una forma particolare di
umanità, è sempre presente (anzi, aderente) anche una forma particolare
di dis/umanità.” Per “disumanità” Remotti
intende evidentemente l’“incompletezza” forzata dall’azione culturalizzante,
conseguente alla rinuncia definitiva ad un'altra forma di umanità. Il
rito di iniziazione, per esempio, è un “fare” uomini che implica inesorabilmente
un “dis/fare” , in quanto impone la recisione di una forma umana alternativa,
la rinuncia a una potenzialità dell’essere che rimarrà irrealizzata. Il
“taglio” rituale, proprio perché imposto, violento, irrevocabile, viene
vissuto come evento formante e de/formante al tempo stesso, che, contemporaneamente,
umanizza e disumanizza. Il “fare umanità” è dunque “fare incompletezza”(eliminando
le molteplici possibilità di essere umani ), ossia creare negli individui
la coscienza di non poter bastare a se stessi, di non rispondere ad un
modello di umanità indiscutibile, certo, universale, non-modificabile,
che generi la necessità di aprirsi agli altri in una relazione di confronto
e scambio bidirezionale.
Ogni cultura “foggia” l’uomo biologico e gli dà una specifica culturale
che lo rende membro integrato della sua cultura “foggiante”. Ogni forma
di umanità è la combinazione di questi elementi secondo modelli culturali
preferenziali, la cui scelta comporta, evidentemente, l’eliminazione di
modelli culturali antipodici che vengono automaticamente rigettati ed
etichettati come “altri”. In una realtà globalizzante come quella attuale,
è inaccettabile ritenere possibile che le diverse forme di umanità possano
rimanere confinate entro limiti socio-culturali definiti. I diversi modi
di essere entrano dunque, inevitabilmente, in comunicazione, si confrontano,
si scontrano, cosicché fra di loro si producono scambi osmotici continui.
Il confronto umano prevede anche la possibilità che si generi un conflitto,
ma in quel caso si tratta comunque di “dicotomie fisiologiche” grazie
alle quali una società, sulla base di un confronto civile e del rispetto
delle diversità, può dirsi animata da differenze interne costruttive.
Se questa pluralità di forme di umanità venisse a mancare, non esisterebbero
scambi culturali, spunti di riflessione, possibilità di confronto ideologico
e quant’altro è garantito da un regime democratico. Dalla non-accettazione
delle diversità umane scaturisce, inevitabilmente, la violenza; ne sono
testimonianza le strategie di omologazione attuate dai sistemi totalitari,
che hanno prodotto e imposto, sistematicamente, con la violenza appunto,
una forma unica di umanità a cui, necessariamente, conformarsi. Per quanto
un sistema possa essere democraticamente rispettoso delle diversità, ci
saranno pur sempre categorie che sfuggono al sistema stesso, che non riesce
ad integrarle. Lo stesso vale, del resto, per i totalitarismi, che, per
quanto assoluti, non riescono ad avere un controllo totale e a foggiare
gli individui secondo un modello umano unico. Presupposto necessario per
una reale accettazione delle alterità umane è partire dall’assunto di
essere diversi ma non migliori, coscienti delle particolarità che ci rendono
altri dagli “altri”, ma di certo non autorizzati allo sterminio delle
alterità in nome di inesistenti valori universalmente validi.
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