1. FARE UMANITA’


Uomini si nasce, umani si diventa. Il processo di “umanizzazione” è innanzitutto processo culturale, che plasma l’uomo biologico dal punto di vista emotivo, etico o morale, estetico, cognitivo, secondo modelli culturali ufficialmente riconosciuti, ma non per questo universalmente validi, né necessariamente condivisi da tutti coloro che appartengono ad una stessa cultura. L’azione plasmante svolta dai modelli acculturativi di riferimento agisce sulle componenti sociali attraverso i canali educativi operanti, fra i quali, nelle società occidentali, famiglia, scuola e mass-media; in quelle preletterate, famiglia allargata, tradizioni, rituali iniziatici e così via. Tra gli orientamenti teorici relativi alle finalità perseguite dai processi di umanizzazione, secondo Francesco Remotti sono individuabili due posizioni: quella dei teorici dell’antropopoiesi che si contrappone a quella sostenuta, tra gli altri, da Marilyn Strathern. I primi ritengono che i processi di umanizzazione debbano necessariamente completare l’uomo biologico (di per sé incompleto); la seconda, al contrario, ritiene che la condizione umana da superare sia proprio quella iniziale che lei stessa, a suo modo, definisce di completezza e che, pertanto, “fare umanità” sia “fare incompletezza”. Secondo la teoria antropopoietica, l’uomo biologico è incompleto, perché le sue limitate risorse biologiche non gli garantiscono né di superare le sfide a cui l’ambiente lo sottopone, né di organizzare la sua stessa realtà. La soluzione viene in questo caso individuata nel ricorso alla cultura come strategia di completamento umano. In realtà, la cultura sopperisce solo limitatamente alle carenze biologiche: poiché una cultura è capace di produrre, al suo interno, solo alcune forme di umanità, questo genera un diffuso senso di frustrazione per le possibilità di forme umane non realizzate al suo interno. Solo l’apertura verso altre forme di umanità, presenti in altri contesti sociali, e la loro integrazione può far superare questo senso di frustrazione. I teorici dell’antropo-poietica, dunque, coltivano l’illusione che la plasmazione culturale possa trasformare l’incompletezza originaria dell’uomo biologico in completezza umanizzata. La cultura sopperisce, seppure limitatamente alle carenze biologiche, ma, poiché contribuisce solo alla creazione di alcune forme di umanità e non di tutte le possibili forme realizzabili, svolge anch’essa un’azione limitata. La contrapposizione a questa interpretazione, rappresentata, come si è detto, da Marilyn Strathern[1], si fonda sul rifiuto dell’interpretazione dei rituali iniziatici come processo di completamento culturale di una incompleta umanità biologica di base. L’antropologa, infatti, parte dall’assunto per cui la condizione infantile che il rito si propone di superare sarebbe, in opposizione alla teoria antropo-poietica, una condizione di completezza, laddove per “completezza” si intende una convivenza di antipodiche possibilità di essere umani. La condizione infantile è infatti caratterizzata dall’indeterminatezza di genere: maschile e femminile convivono, nel bambino, peraltro senza conflitti. Secondo la studiosa, rispetto a questa coincidenza degli opposti che definisce una sorta di completezza, il rito imporrebbe, semmai, una costruzione di umanità incompleta, attraverso la rinuncia culturalizzata all’androginia infantile. Il rito iniziatico, con l’eliminazione di questa compresenza di ruoli sessuali, trasformerebbe il bambino androgino (e dunque completo) in un individuo adulto incompleto (maschio o femmina), eliminando, irrevocabilmente, alcune delle possibilità alternative dell’essere. Ma, d’altra parte, Marilyn Strathern riconosce che è proprio tale incompletezza a indurre l’incontro fra i sessi, garanzia basilare di continuità sociale. Secondo Francesco Remotti[2], entrambe le visioni, quella di Marilyn Strathern e quella antropo-poietica, si fondano sull’illusione che l’uomo possa raggiungere o partire da una situazione di completezza. Dal suo punto di vista, invece, “umanità” e “completezza” risultano essere concetti inconciliabili, perché “(…) insieme a una forma particolare di umanità, è sempre presente (anzi, aderente) anche una forma particolare di dis/umanità.”[3]
Per “disumanità” Remotti intende evidentemente l’“incompletezza” forzata dall’azione culturalizzante, conseguente alla rinuncia definitiva ad un'altra forma di umanità. Il rito di iniziazione, per esempio, è un “fare” uomini che implica inesorabilmente un “dis/fare” , in quanto impone la recisione di una forma umana alternativa, la rinuncia a una potenzialità dell’essere che rimarrà irrealizzata. Il “taglio” rituale, proprio perché imposto, violento, irrevocabile, viene vissuto come evento formante e de/formante al tempo stesso, che, contemporaneamente, umanizza e disumanizza. Il “fare umanità” è dunque “fare incompletezza”(eliminando le molteplici possibilità di essere umani ), ossia creare negli individui la coscienza di non poter bastare a se stessi, di non rispondere ad un modello di umanità indiscutibile, certo, universale, non-modificabile, che generi la necessità di aprirsi agli altri in una relazione di confronto e scambio bidirezionale.
Ogni cultura “foggia” l’uomo biologico e gli dà una specifica culturale che lo rende membro integrato della sua cultura “foggiante”. Ogni forma di umanità è la combinazione di questi elementi secondo modelli culturali preferenziali, la cui scelta comporta, evidentemente, l’eliminazione di modelli culturali antipodici che vengono automaticamente rigettati ed etichettati come “altri”. In una realtà globalizzante come quella attuale, è inaccettabile ritenere possibile che le diverse forme di umanità possano rimanere confinate entro limiti socio-culturali definiti. I diversi modi di essere entrano dunque, inevitabilmente, in comunicazione, si confrontano, si scontrano, cosicché fra di loro si producono scambi osmotici continui. Il confronto umano prevede anche la possibilità che si generi un conflitto, ma in quel caso si tratta comunque di “dicotomie fisiologiche” grazie alle quali una società, sulla base di un confronto civile e del rispetto delle diversità, può dirsi animata da differenze interne costruttive. Se questa pluralità di forme di umanità venisse a mancare, non esisterebbero scambi culturali, spunti di riflessione, possibilità di confronto ideologico e quant’altro è garantito da un regime democratico. Dalla non-accettazione delle diversità umane scaturisce, inevitabilmente, la violenza; ne sono testimonianza le strategie di omologazione attuate dai sistemi totalitari, che hanno prodotto e imposto, sistematicamente, con la violenza appunto, una forma unica di umanità a cui, necessariamente, conformarsi. Per quanto un sistema possa essere democraticamente rispettoso delle diversità, ci saranno pur sempre categorie che sfuggono al sistema stesso, che non riesce ad integrarle. Lo stesso vale, del resto, per i totalitarismi, che, per quanto assoluti, non riescono ad avere un controllo totale e a foggiare gli individui secondo un modello umano unico. Presupposto necessario per una reale accettazione delle alterità umane è partire dall’assunto di essere diversi ma non migliori, coscienti delle particolarità che ci rendono altri dagli “altri”, ma di certo non autorizzati allo sterminio delle alterità in nome di inesistenti valori universalmente validi.



[1] Strathern M., Making Incomplete, in Broch-Due Vigdis, Rudie Ingrid e Bleie Tone, a cura di, Carved Flesh/Cast Selves. Gendered Symbols and Social Practices, Oxford, Berg, 1993, pp.41-51.
[2] Remotti F., Prima lezione di antropologia, Roma-Bari, Laterza, 2000, p.163.
[3] Remotti F., op.cit., p.163.